Il teatro al sorpasso
A Castiglioncello la XXI edizione di InEquilibrio
Ha sempre un certo fascino da cartolina Castiglioncello – frazione di Rosignano Marittimo (LI). Poche migliaia di abitanti, promontorio affacciato sul Mar Tirreno e tanta vitalità per una delle mete estive più ambite della Costa degli Etruschi. L’imponente Castello Pasquini che ti scruta dall’alto e la quiete della Pineta Marradi, definita cattedrale dallo stesso poeta da cui prende il nome. I mille aneddoti ricavati da ospiti illustri del calibro di Winston Churchill, Luigi Pirandello, Silvio D’Amico, Marcello Mastroianni; e quell’aria familiare acquisita anche grazie a quel capolavoro diretto da Dino Risi – Il sorpasso (1962) – parzialmente girato proprio in questa cittadina.
Ecco, partiamo proprio da questo monumento del cinema italiano. La trama è presto detta: a Roma, in un giorno di ferragosto, Bruno Cortona (Vittorio Gassman), quarantenne baldanzoso, incontra Roberto Mariani (Louis Trintignant), introverso studente di giurisprudenza. Dalla capitale, volante della Lancia Aurelia B24 tra le mani e sorriso mefistofelico sul viso, il mattatore trascina il suo iniziato in un viaggio – fisico e interiore – che lo sconvolgerà, anche con conseguenze estreme.
Ora. Accantoniamo il boom economico, il confronto generazionale, le estrazioni sociali e il grado di istruzione dei personaggi . Mettiamo da parte i tormentoni estivi, i momenti esilaranti e quelli più amari. Lasciamo stare anche il processo di condizionamento/mutamento – quasi totalmente unidirezionale – dei protagonisti, fulcro della sceneggiatura che lo psicologo Risi scrisse con Ettore Scola e Ruggero Maccari. Proviamo ad abbandonare tutto per concentrarci su Cortona e Mariani allo stadio iniziale: il primo vive la vita un centimetro alla volta, è prevedile nella sua imprevedibilità e non demorde mai nella sua costante ricerca di nuove sfide; il secondo, invece, è timido, onesto, restio al cambiamento e agisce sempre nel rispetto dell’autorità. Sono due facce della stessa società, due atteggiamenti antitetici ma allo stesso tempo complementari, due anime in equilibrio tra il nuovo e il vecchio.
Due persone in carne e ossa, certo, ma anche due attitudini facilmente riscontrabili nella scena contemporanea del nostro teatro, come testimonia il solito ricco e variegato programma di InEquilibrio, Festival della Nuova Scena tra Danza, Musica e Teatro diretto da Angela Fumarola e Fabio Masi. Giunto alla sua XXI edizione, il festival organizzato da Armunia – vero e proprio caposaldo dell’estate teatrale – ha aperto le porte dell’ottocentesco Castello Pasquini per ben tre settimane, con quarantadue artisti che, tramite i loro spettacoli, hanno narrato e sviluppato, mediante tacito dialogo, il concetto di fragilità. Ma torniamo alle due tipologie dello “stare al mondo”, teatrale in questo caso.
Partiamo con Cani morti di Jon Fosse, messo in scena da Carmelo Alù, vincitore del progetto Davanti al pubblico 2018 del teatro Metastasio di Prato. Un tavolo, qualche sedia e una finestra rappresentata da un proiettore che emana una luce intensa: questa l’essenziale scena. Qui, i protagonisti – un figlio e una madre – appaiono scossi dall’insolito mancato ritorno a casa del proprio cane. Tra silenzi, lunghe pause e frasi interrotte, cercano di affrontare il problema senza affrontarlo: ci girano attorno, riflettono, si turbano a vicenda ma, fondamentalmente, nessuno va a cercare l’animale domestico.
I silenzi diventano sempre più assordanti, le frasi non dette prevalgono sui brevi dialoghi spesso sconclusionati, le parole quasi infastidiscono il figlio. Proprio per lui arrivano anche le visite di un amico e della sorella accompagnata dal proprio marito, ma sono incursioni che non smuovono un’azione che si nasconde solo fuori dalla scena, mai cercata ma solo evocata da un finale dalle tinte rosso sangue che comunque non pone freno a quell’incomunicabilità, unita a inquietudine, padrona assoluta della scena.
Stati d’animo che tornano – così come l’assenza di un effettivo dialogo e l’egemonia del vuoto esistenziale dei protagonisti – in Giusto la fine del mondo di AttoDue/Murmuris (regia Simona Arrighi e Laura Croce) da Jean-Luc Lagarce. Dialoghi serrati, monologhi e, anche qui, dense pause costruiscono le dinamiche di una famiglia colta alla sprovvista dalla visita di Louis, il secondogenito che non tornava a casa da diversi anni. Tutti i componenti della famiglia reagiscono in maniera differente all’inatteso ritorno, mentre il protagonista, che ha un segreto da rivelare, si ritrova in una sorta di limbo composto da vecchi fantasmi e nuovi equilibri difficili da smuovere.
Un dramma familiare, quindi, che si consuma – quasi esclusivamente – in una sala da pranzo allestita e ospitata dalle eleganti mura della Sala del Ricamo del Castello Pasquini. Un luogo che, con il suo fascino d’altri tempi, si presta perfettamente alla messinscena tradizionale, votata al naturalismo della compagnia che dispone il pubblico lungo il perimetro della stanza in modo da avvicinarlo alle vicende dei personaggi senza donare punti di riferimento.
Due spettacoli ottimamente interpretati, di pregevole fattura ma che paiono vivere all’ombra del testo, senza far trapelare una particolare audacia dal punto di vista scenico e interpretativo. Una scelta legittima, sia chiaro, specie quando gli autori di riferimento – più Lagarce che Fosse – non sono ancora così conosciuti nella nostra penisola; il rischio per le compagnie, però, è di ritrovarsi un gradino sotto le rispettive drammaturgie, uno sbilanciamento difficile da equilibrare allo stadio attuale. Siamo nella dimensione più vicina a Mariani. Vediamo quella di Cortona.
Iniziamo con il secondo capitolo sulla mitologia greca dei Sacchi di Sabbia e Massimiliano Civica che, dopo Dialoghi degli Dei – presentato due anni fa sempre a Castiglioncello –, debuttano in questa edizione con Andromaca, tragedia euripidea che si fa commedia sfruttando proprio la sorte amara della vedova di Ettore. Un rovesciamento della medaglia ottenuto grazie ai paradossi e ai desideri di rivalsa messi in luce dai vari personaggi mitologici, comodamente seduti sul fondo del palco, che con entrate e uscite a orologeria infieriscono sul dramma esistenziale della protagonista.
Rimane invece ben saldo sulla loro postazione – nella parte anteriore del palco – il coro composto da due serve dal marcato accento toscano che commentano antefatti e vicende, almeno fino a quando la matassa diventa troppo intricata e feroce, costringendole a girare la testa dall’altro lato; e, ovviamente, Andromaca, dolente e abbarbicata al tempio di quella dea Teti – dalle sembianze di una Madonna – vanamente invocata e che mai apparirà, così come Neottolemo, l’altro assente illustre.
Eccezion fatta per il coro, tutte le figure femminili sono interpretate da uomini che, con dialetti differenti – dal toscano al napoletano –, condannano lo stato di serva ormai assunto da Andromaca, vedova dal figlio assassinato, trascinata via da una Troia distrutta e madre di un figlio concepito da un abuso. Di materiale tragico ce n’è a sufficienza, ma come ben sappiamo il confine con il comico è davvero sottile e basta poco, almeno in apparenza, per tramutare lacrime in grasse risate e figure mitologiche in vicende familiari e umane.
Se Dialogo degli Dei esauriva le proprie intuizioni dopo un’esilarante prima parte, in Andromaca i Sacci di Sabbia e Civica riescono a protrarre con originalità la verve comica su tutta l’interezza dello spettacolo. Una caratteristica che ritroviamo, ma con ironia e comicità ben differenti, in Gli sposi di David Lescot, tradotto da Attilio Scarpellini e messo in scena dalla coppia teatrale Frosini/Timpano. Si ride tanto, infatti, ma a «denti stretti» come osserva Massimo Marino, in uno spettacolo che esalta il trionfo della mediocrità.
Già, perché i protagonisti sono Nicolae Ceaușescu e Elena Petrescu, dittatori della Romania per venticinque anni fino al fatidico e sommario processo che li condannò a morte nel 1989. A ben vedere una coppia qualunque, con più difetti che pregi, ma nonostante questo ritrovatasi a imporre il proprio giogo a un’intera nazione. Il testo del drammaturgo francese, altamente politico e pregno di ironia nera, pare cucito su misura sul modo di intendere il Teatro di Frosini/Timpano, che in un’essenziale (almeno apparentemente) costruzione fondata sulle contrapposizioni/affinità di coppia tratteggiano l’ascesa e la caduta di due tra le più discusse e discutibili figure del secolo scorso.
Dalle umili origini di entrambi si passa al dettaglio dei singoli. Lui, senza doti degne di nota, un po’ balbuziente e grottescamente iroso diventa segretario del Partico Comunista Romeno in maniera bizzarra e in seguito viene condotto al gradino più alto anche dalla furbesca avidità di lei, famelica, calcolatrice, ostinata nel perseguire i propri interessi, autentica via di mezzo tra Lady Macbeth e Madre Ubu. Un normalissimo uomo comune il primo, una presunta scienziata che colleziona certificati di laurea senza forse aver conseguito il più importante – quello delle elementari – la seconda.
Nessuna scenografia, tutto è affidato a voce, gesto e corpo. Una luce ben calibrata, un microfono e subito prendono vita i comizi di propaganda e le pose del “Conducator”, la sete di potere e i sorrisi di facciata dell’eminenza grigia del regime, la vita di coppia e il potere che pian piano si logora. Scavano, Frosini/Timpano ripercorrendo un passato che si ripercuote nel presente; provocano, Frosini/Timpano, intingendo a piene mani nell’illusoria superficialità dello stereotipo; smascherano, Frosini/Timpano, facendo emergere il surrealismo celato dietro il terrore.
È tutto irragionevolmente vero; e in mente tornano le parole del Padre dei Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, quando, per tentare di convincere il Capocomico asserisce:
Oh, signore, lei sa bene che la vita è piena d’infinite assurdità, le quali sfacciatamente non han neppure bisogno di essere verosimili; perché sono vere.
Proprio dal dramma pirandelliano prende vita Sei. E dunque, perché si fa meraviglia di noi? di Roberto Latini con PierGiuseppe Di Tanno, unico attore in scena e prodigioso settimo personaggio in cerca d’autore. Una riscrittura, o meglio – prendendo in prestito le parole dello stesso regista –, un «attraversamento», non solo dell’opera di Pirandello, ma anche del Teatro intero; ponendo la lente d’ingrandimento sul suo elemento principe: il personaggio, con il labile confine tra finzione e realtà che lo contraddistingue. Quindi, via i preamboli, via le digressioni; si inizia in medias res, dritti al punto, proprio da quella battuta del Padre che Latini utilizza nel sottotitolo. E siamo quasi alla fine.
Dall’alto del suo trespolo – un parallelepipedo rettangolo di metallo alto un paio di metri –, con un telo bianco sullo sfondo mosso, di tanto in tanto, da vortici di vento e una luce che ne definisce la figura; Di Tanno si fa carico di tutte le battute – didascalie comprese – dei personaggi pirandelliani. Una maschera bianca a coprire metà del viso, gorgiera al collo, smanicato bianco, pantaloni in latex e unghie smaltate: l’attore è un cumulo di nervi, la sua voce è cangiante e potente. Costretto nel suo misero spazio e nei suoi angusti abiti di scena, si sbraccia, si contorce, suda nel disperato tentativo di vivere e rendere vive le parole. Sempre parole. Lucide, raggianti e desolanti parole.
Parole che tornano impresse su un velatino (anche con l’attore fuori-scena) e diventano sempre più suono, amplificate da un microfono, intrecciate alla musica o collocate di fronte al mistero della morte, quando il trespolo si tramuta in una bara abitata da vecchie e nuove maschere. Tornano sempre quelle maschere, apparizioni illusorie che smuovono l’immaginazione, inquietanti (o rassicuranti) allucinazioni che influenzano l’intelletto, anime dimorate in un mondo tanto irrappresentabile quanto aderente alla realtà.
L’ultima diavoleria è affidata a un’improvvisata vasca da bagno. Lì, sfinito e ormai “nudo”, liberatosi, almeno per un momento, dei suoi fardelli, l’interprete-uomo si tuffa in un cumulo di schiuma. Una musica e una posa d’altri tempi, un raggio di luce che lo illumina, e noi, che abbandoniamo questo finale dal gusto rétro con la dannata consapevolezza di sapere quando inizia la finzione e al contempo di ignorare l’attimo in cui la stessa si dissolve, nella stessa materia che compone la realtà.
Mariani e Cortona, due modi di intendere il Teatro. Sì, lo sappiamo, forse il paragone è un po’ stravagante, superficiale o quantomeno opinabile; ma è altresì innegabile che sono due larghe strade – dalle multiple variabili – tanto parallele quanto percorribili. E fa bene, Enrico Pastore, a chiedersi «quale teatro vogliamo nel nostro contemporaneo», là, dove il primo modello potrebbe risultare anacronistico mentre il secondo, spesso, necessita di conoscenze pregresse per essere pienamente fruito. Intanto, si rimane sempre in equilibrio. Così è (se vi pare).
Ascolto consigliato
Letture consigliate
- SPECIALE INEQUILIBRIO, di Enrico Pastore (www.enricopastore.com)
- Artisti Inequilibrio, di Massimo Marino (DoppioZero)
- “Sei. E dunque: perché si fa meraviglia di noi?”: Roberto Latini attraversa il dramma di Pirandello, di Roberto Rinaldi (rumorscena)
CANI MORTI
di Jon Fosse
adattamento e regia Carmelo Alù
con Alessandra Bedino, Domenico Macrì, Emanuele Linfatti, Caterina Fornaciai e Daniele Paoloni
produzione Teatro Metastasio Prato – Spettacolo vincitore progetto Davanti al pubblico 2018
con il sostegno di Armunia/Festival Inequilibrio, Capotrave/Festival Kilowatt e Fondazione Toscana Spettacolo
GIUSTO LA FINE DEL MONDO
di Jean-Luc Lagarce
traduzione Franco Quadri
drammaturgia e regia Simona Arrighi e Laura Croce
cura Silvano Panichi
con Luisa Bosi, Laura Croce, Sandra Garuglieri, Roberto Gioffrè e Riccardo Naldini
allestimento spazio scenico Francesco Migliorini
assistente Angelo Castaldo
organizzazione Elisa Bonini, Davide Grassi
produzione AttoDue / Murmuris
con il sostegno di MIBACT, Regione Toscana, Estate Fiorentina 2017
ANDROMACA
da Euripide
uno spettacolo di Massimiliano Civica e I Sacchi di Sabbia
con Gabriele Carli, Giulia Gallo, Giovanni Guerrieri, Enzo Iliano e Giulia Solano
produzione Compagnia Lombardi-Tiezzi
in co-produzione con I Sacchi di Sabbia
e il sostegno della Regione Toscana
GLI SPOSI – ROMANIAN TRAGEDY
regia e interpretazione Elvira Frosini e Daniele Timpano
testo di David Lescot
traduzione Attilio Scarpellini
disegno luci Omar Scala
scene e costumi Alessandro Ratti
collaborazione artistica Lorenzo Letizia
assistente alla regia Camilla Fraticelli
progetto grafico Valentina Pastorino
uno spettacolo di Frosini / Timpano
produzione Gli Scarti, Accademia degli artefatti, Kataklisma teatro
con il sostegno di Armunia Centro Residenze Artistiche Castiglioncello, Asti teatro, Teatro di Roma
nell’ambito di Fabulamundi. Playwriting Europe
SEI. E DUNQUE, PERCHÉ SI FA MERAVIGLIA DI NOI?
da Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello
drammaturgia e regia Roberto Latini
musica e suono Gianluca Misiti
luci e direzione tecnica Max Mugnai
assistente alla regia Alessandro Porcu
con PierGiuseppe Di Tanno
produzione Fortebraccio Teatro
con il sostegno di Armunia Festival Costa degli Etruschi
con il contributo di MiBACT, Regione Emilia-Romagna