C’era una volta Fibre Parallele
La Compagnia Licia Lanera con The Black's Tales Tour e Mamma
Accade non di rado, nel teatro come nella vita, che due strade si dividano, inizino a percorrere itinerari diversi o sentieri paralleli, che magari ripartano da zero o proseguano un discorso accidentalmente interrotto. Quest’anno (almeno ufficialmente) è stata annunciata la separazione artistica tra Licia Lanera e Riccardo Spagnulo, fondatori e anime di una delle compagnie – Fibre Parallele – simbolo della rinascita teatrale pugliese dell’ultimo decennio. Un percorso impetuoso, rapido, refrattario quanto fragile che dal 2007 – anno del debutto sul palcoscenico con Mangiami l’anima e poi sputala – al 2015 – anno dell’ultimo spettacolo firmato da entrambi: La beatitudine – ha portato la coppia ad attraversare in lungo e in largo la nostra penisola (e non solo) e ad aggiudicarsi numerosi riconoscimenti.
I due, entrambi attori, hanno sempre cercato – spesso riuscendoci – di creare una sorta di cortocircuito tra drammaturgia (Spagnulo) e regia (Lanera) che consentisse di mostrare stralci di una realtà tanto veritiera quanto artefatta. Nudi e crudi, sporchi e politicamente scorretti, i due artisti pugliesi hanno forse fatto registrare l’ultimo acuto in occasione della rassegna che i Teatri di Bari gli dedicarono nel 2016, decimo anniversario dalla loro nascita. Quasi due settimane di monopolio sul cartellone di Kismet e Abeliano in cui Fibre riproposero tutti gli spettacoli della propria carriera. Una vera e propria maratona teatrale anticipata dalla pubblicazione di un volume – Per fede e stoltezza (2015, Editoria & Spettacolo) – contenente una prefazione del critico Rodolfo di Giammarco che, dopo aver brevemente descritto i vari spettacoli, (non) definisce la compagnia in questo modo:
È alla luce di questi scarti sempre più sofferentemente dispotici, e poi magari sempre più socialmente strutturati, che il senso dell’attività creativa di Fibre Parallele spariglia ogni possibile intento definitorio. Ma è un bene, lo dico convintamente, per loro, essere allergici a certe apparenze antiretoriche, a certi canoni corsari, a un certo dovere di discendere da un solo proposito, da una sola deviazione.
Etichettare senza etichette, dunque, in un cammino che sembra continuare in una direzione che esclude un qualsiasi intento di stilizzazione chiuso e delineato. Se da un lato, infatti, Spagnulo è recentemente riapparso in scena dopo un paio di anni di assenza con Le smanie per la villeggiatura di Carlo Goldoni (regia Paolo Panaro, produzione Diaghilev); dall’altro Lanera sta tentando di portare avanti e dare continuità a un progetto che ha inevitabilmente perso un tassello di rilevante importanza. Uno strappo formalizzato anche dal nuovo nome – Compagnia Licia Lanera – assunto da quest’anno ma che, fondamentalmente, ha iniziato il proprio corso con le dolci storie splatter di Licia racconta le fiabe (2016) e le ombre e luci di Orgia (2016). È datato 2017, invece, il debutto – al Festival delle Colline Torinesi – di The Black’s Tales Tour, versione 2.0 proprio di quelle fiabe che avevano costituito, un anno prima, una sorta di secondo debutto in versione solista.
Dalla lettura alla performance, dai comodi letti alle scomode poltrone. Licia Lanera, body di pelle nera e stivali ai piedi, entra in scena in una nebbia di fumo tra le pulsazioni electro-folk e i lamenti aborigeni di Tanca, brano di Iosonouncane amplificato in alcune sue componenti dal magistrale lavoro al suono di Tommaso “Qzerty” Danisi, sound designer capace di creare al synth anche i cinguettii degli uccelli e di modulare o amplificare con ogni sorta di diavoleria la voce/anima della protagonista in scena. Senza il suo lavoro sonoro/musicale parleremmo sicuramente di un altro spettacolo.
Ebbene, in questa atmosfera tra l’onirico e l’horror, Lanera – un po’ bondage un po’ dark, un po’ Venus in Furs dei Velvet Underground un po’ A Forest dei Cure – chiarisce subito le proprie intenzioni mettendo tutti in allerta: «Io la notte non dormo; e vorrei che stanotte non dormissi nemmeno tu». Una sorta di patto che l’attrice porterà (quasi) fino in fondo allo spettacolo, precludendo ogni possibile lieto fine e negando ogni qualsivoglia edulcorazione che per decenni – la Disney in primis – ci hanno fatto sorbire, nel bene e nel male.
Cenerentola, La Sirenetta, Biancaneve, Scarpette rosse e La Regina delle nevi; queste le fiabe selezionate e letteralmente scagliate verso il pubblico senza indugiare su antefatti, preamboli e digressioni ma arrivando subito all’essenza, alla sostanza del conflitto principale. Tremori, parole strozzate in gola, sussulti, canti, urla: Licia Lanera, come ci ha abituato nel corso degli anni, non si risparmia e dona voce e corpo a queste eroine dal destino infausto, che tale rimane considerata l’assenza di un principe azzurro o di un lieto fine salvifico. L’unica protagonista in scena, dunque, si divide tra le sequenze splatter di dita mozzate e l’angosciante emarginazione di Cenerentola, tra l’inconsolabile desolazione di Ariel e la maligna invidia della matrigna di Biancaneve, tra le corse infinite verso la perdizione di Karen e nella perenne freddezza della Regina delle nevi. Niente nani, incantesimi, eroi; nient’altro che donne – sole – in un faccia a faccia con le proprie paure e fragilità.
Uno spettacolo intimo, in cui l’indubbia bravura dell’interprete (ma non deve bastare) unita agli effetti scenici e sonori sovrastano una regia troppo lineare e una drammaturgia ancora acerba, specie in un finale improvvisamente roseo in cui – tra le note di Édith Piaf (Non, je ne regrette rien) – la protagonista riesce finalmente a comporre l’agognata parola “eternità” anagrammando, dopo vari tentativi, le otto lettere posizionate in proscenio. Una speranza riaccesa, un principio di lieto fine ottenuto scavando nell’umanità delle eroine che diventa un unicum con quella dell’attrice. Ed è soprattutto qui che l’impersonalità delle fiabe – che in Licia racconta le fiabe tanto ridestavano lo spettatore assopito – sembra entrare in una sfera più personale, ma meno stimolante. Insomma, c’era una volta, c’è ancora – parrebbe dire –, ma forse non è esattamente la nostra battaglia.
Già, c’era una volta. O «ce steva na vota», come scriveva Annibale Ruccelo in Mamma – Piccole tragedie minimali, ultima gemma di un percorso interrotto prematuramente da un incidente stradale nel 1986, quando il drammaturgo/attore/regista/antropologo di Castellammare di Stabia aveva solo trent’anni. Proprio Mamma segna il sorprendente esordio in solo di Danilo Giuva, componente della Compagnia Licia Lanera, già attore in alcune produzioni di Fibre Parallele (Duramadre e La beatitudine) e assistente alla regia di Orgia e The Black’s Tales Tour. Prima regia, dunque, per Giuva (anche unico attore in scena) alle prese con un testo di certo scomodo da maneggiare.
Siamo infatti di fronte a quella che spesso è stata definita l’opera-testamento di Ruccello, sia per gli aspetti puramente stilistici – specie l’uso di un linguaggio che rispecchia l’appartenenza geografica e di classe sociale – che per la peculiarità di contenere e sviluppare temi già ben noti nella sua carriera ma allo stesso tempo di allontanarsene. Se da un lato a permanere sono, difatti, il consueto cortocircuito tra personaggio e psiche e quella sorta di tendenza all’emarginazione coatta ben nota nelle sue precedenti opere; dall’altro ci ritroviamo davanti a un elemento centrale – la maternità – fino ad allora volutamente eluso. Per quanto fortemente desiderata dalle sue donne, infatti, era sempre sfuggita a Jennifer (per motivi abbastanza chiari) o ad Anna Cappelli, ripudiata dal suo Tonino; o ancora, alla Baronessa Clotilde e a Gesualda (Ferdinando), avanti con l’età senza prole. Unica concessione ad Adriana (Notturno di donna con ospiti), ma forse sarebbe stato meglio evitare.
In Mamma, invece, quella materna è – almeno inizialmente e in apparenza – una figura tradizionale, salvo poi divenire generatrice di una disgregazione che dal microcosmo famigliare si espande al macrocosmo dell’intera società, anche con una certa vena di perfidia e sadismo. Una caratteristica, questa, che rende lo scritto (al pari di Ferdinando) uno dei più attuali e universali di Ruccello.
Giuva, dal canto suo, elimina – per quanto possibile – ogni rimanente patina di obsolescenza e, soprattutto, di identificazione geografica maneggiando con cura questa bomba a orologeria, smussando gli angoli, tagliando parti ripetitive e portandola nella sua dimensione grazie a una traduzione in lingua foggiana che, rispettando la parabola ruccelliana, parte dal dialetto arcaico della prima storia e diventa via via più accessibile nelle successive due, fino a raggiungere una sorta di italiano dialettizzato nel quarto e ultimo capitolo. Un lavoro solo in apparenza minimale, in linea con tutta la messinscena e con lo stesso sottotitolo originale.
L’attore pugliese, infatti, si presenta in abito total black in una scena buia e nuda, eccezion fatta per una sedia e per un sipario che nasconde un cuore dipinto su tela bianca. Una sempre differente esibizione di una protesi di cartapesta bianca raffigurante pancia e seno, e poche ma funzionali luci demarcano storie e suggestioni di primo acchito lontane, ma che ben presto evidenziano la stessa matrice distruttiva.
Gestualità rigorosa, mimica composta, audaci cambi di registro compongono la favola di Catarinella, ragazza alle prese con l’omicidio materno e la scoperta del suo principe serpente; di Maria di Carmela, ex sacrestana che, internata in manicomio, crede di essere la Madonna; della Telefonata di una tragicomica donna-simbolo degli anni Ottanta dalla mente ottenebrata della televisione commerciale; e, infine, di Mal di denti, confessione figlia-madre, con quest’ultima che si preoccupa solo per un’eventuale discesa nella scala sociale.
Quattro brevi monologhi, dunque, in cui il naturale sentimento materno viene composto e scomposto per incarnare il perenne e insanabile – per concorso di colpa – conflitto generazionale che dalla famiglia si sposta al mondo esterno, ossia dove le già fragili mura domestiche non riescono più a nasconderne la corrosiva e labile solidità.
Etichettare senza etichette, si diceva. La Compagnia Licia Lanera continua il proprio percorso là dove si era interrotto quello di Fibre, senza offrire punti di riferimento assoluti e ben definiti ma allo stesso mantenendo invariati gli intenti, i tentativi di ridestare lo spettatore dal torpore, evitando carezze e prediligendo pugni nello stomaco che ormai hanno una fonte in meno da cui trarre energia e, quindi, un nuovo equilibrio da ritrovare. Mettersi costantemente in gioco e cercare nuovi stimoli – pur senza snaturarsi – sono caratteristiche mai mancate nel DNA della fondatrice di questa compagnia; e forse, oggi più che mai, dovrebbero essere dei capisaldi per il futuro.
Ascolto consigliato
THE BLACK’S TALES TOUR
di e con Licia Lanera
e con Qzerty
regia Licia Lanera
scene Giorgio Calabrese
costumi Sara Cantarone
luci Martin Palma
sound design Tommaso Qzerty Danisi
consulenza artistica Roberta Nicolai
organizzazione Antonella Dipierro
regista assistente Danilo Giuva
produzione Compagnia Licia Lanera
coproduzione CO&MA Soc. Coop. Costing & Management
e con il sostegno di Residenza IDRA e Teatro AKROPOLIS nell’ambito del progetto CURA 2017
e di Contemporanea Festival/Teatro Metastasio
MAMMA
di Annibale Ruccello
con Danilo Giuva
regia e spazio Danilo Giuva
luci Cristian Allegrini
suoni Giuseppe Casamassima
scene Silvia Rossini
assistente alla regia Riccardo Lacerenza
con il sostegno di Compagnia Licia Lanera, Ombre Associazione Culturale, Teatro Rossini e il Comune di Gioia del Colle