Beach Rats
Il film immerge lo spettatore in una dimensione virtuale tra alienazione adolescenziale e formazione della sessualità
Periodicamente si assiste al fenomeno per cui un problema sociale, giudicato rilevante, viene sottoposto all’attenzione delle masse sempre più spesso e sempre in modo più grossolano. Il risultato paradossale che questa operazione spesso genera è la completa desensibilizzazione e la perdita di significato del problema agli occhi dell’opinione pubblica. Non ha dato esito diverso la campagna di sensibilizzazione legata all’alienazione adolescenziale ipoteticamente causata dalle nuove tecnologie, che molto ha fatto discutere negli ultimi anni. Nonostante questa pessimistica premessa, Beach Rats (2016), in slang i frequentatori della zona di Brooklyn “Gerritsen Beach“, riesce nella difficile impresa di rappresentare efficacemente una realtà molto più ampia, dando nuovamente significato ad un problema dato per assunto.
Frankie è un adolescente confuso sulla propria sessualità, vive con la sorella minore, la madre e il padre malato terminale. Trascorre l’estate con i suoi amici sbandati tra droghe, furti e ininterrotti allenamenti. Frankie trova rifugio da questa esistenza angosciosa e precaria in incontri occasionali con uomini maturi conosciuti online. Nel corso del lungometraggio ci troveremo spesso ad indugiare su momenti di vita assoluta ordinaria dei personaggi; un adolescente intento a scattarsi un selfie davanti allo specchio o in contemplazione dello schermo del proprio computer. Momenti mai eccedenti e abilmente sottolineati da un commento sonoro che non potrà fare a meno di ingenerare l’orrore di chi guarda e palesare la natura insana di uno stile di vita portato all’eccesso.
I rapporti umani vengono così snaturati a loro volta, facendo perdere consistenza a tutto ciò che è al di fuori della dimensione virtuale e che non è osservato attraverso il filtro artificiale dello schermo, ormai dominante. Assunto dal quale prende forma una stimolante indagine sulla presa di coscienza di sé, dei propri convincimenti e di come questi vengono dagli altri percepiti. Il film si avvale di interpreti totalmente ignoti al pubblico (Harris Dickinson, Madeline Weinstein, Harrison Sheehan) ma non per questo meno efficaci e sufficientemente impersonali confacentemente al ruolo da loro interpretato. Seconda regia della statunitense Eliza Hittman che qui cura anche la sceneggiatura, dopo l’esordio nel 2013 con It Felt Like Love, non lontano per tematiche e idee. Ottiene plauso e riconoscimenti (Premio Miglior Regia) al Sundance Film Festival, da sempre impegnato nella valorizzazione del cinema indipendente, e successivamente al Festival del Film di Locarno nella sezione Cineasti del Presente.