Ferracchiati e il paradosso dello stereotipo gender
Fra premi, dubbi e biennali, Stabat Mater approda in casa Terni Festival
I fenomeni passano, le persone rimangono.
Cosa vuol dire? Che di questi tempi si tende molto a gonfiare «casi»: all’improvviso scoppia la bolla e giù tutti a parlare e sparlare del fenomeno di turno, a prendere una posizione, a schierarsi, a difendere e ad attaccare—ma poi, passata l’onda, tutto tace.
Ha fatto discutere ultimamente il «caso Ferracchiati»: prima l’elezione alla Biennale Teatro di Venezia targata Latella, poi il Premio Hystrio «Scritture di Scena», infine la vittoria (ex aequo) del Premio Scenario 2017. Rivelazione o fenomeno? Classe 1985, la regista tuderte si diploma nel 2014 alla Paola Grassi, nel 2015 fonda la compagnia The Baby Walk, e in appena due anni annovera già una trilogia e un quarto spettacolo. Ma non è certo la prolificità ad esserle imputata, quanto il tema ricorrente trattato e l’età. Rientriamo infatti negli Under 35 e nelle questioni di gender. Qui però si è fatta molta confusione.
Quel che non è chiaro, appunto, è perché mai il fatto che Livia (o Liv) Ferracchiati sia transgender debba diventare dirimente nel giudizio del suo teatro. Se una donna tratta in scena il femminicidio, un africano il terzo mondo, un arabo il mondo islamico, ecc.—ciò non implica che il dato spettacolo sarà «autobiografico». Fino a prova contraria autobiografia significa «narrazione della propria vita», ed è altra cosa dal narrare temi vicini alla propria sensibilità. Altrimenti qualunque opera artistica rischia di diventare autobiografica perché cara all’artista che la realizza.
No, è cosa sia questo benedetto «gender» a non essere per nulla chiaro. E, non sapendo, si finisce per categorizzarlo sbrigativamente, cioè per farne uno stereotipo approssimativo: tema sociale? nodo politico? topos artistico? nuova tendenza? Ebbene, Ferracchiati non prende una posizione così netta: parla di transgendering come un napoletano potrebbe parlare di Sanità. È il «come» e la qualità di questo «come» che dovrebbero semmai suscitare interrogativi. Anche perché, non trattandosi di lavori apologetici o propagandistici, se politici sono lo sono solo in seconda battuta, perché comunque pur apparteniamo a una dimensione collettiva detta polis.
Veniamo allora al teatro. Il 15 e 16 settembre, il Terni Festival – che fin dal 2015 ha ospitato e supportato i lavori della compagnia – ha aperto con un’anteprima dedicata alla trilogia di Ferracchiati, rispettivamente: Peter Pan guarda sotto le gonne, Stabat Mater e Un eschimese in Amazzonia (lo studio di venti minuti vincitore Premio Scenario). «Trilogia sull’identità». Sulla formazione dell’identità. Di genere, volendo. Ma volendo. Ecco, il punto del teatro di Ferracchiati è proprio questo: che il tema gender viene affrontato al pari di qualunque altra questione identitaria, vale a dire come una delle componenti (etnia, religione, lingua, provenienza, ecc.) che vanno a incidere nel rapporto che l’individuo ha con sé e con gli altri rispetto alla percezione di sé nel contesto in cui è immerso.
Se in Peter Pan protagonista era una preadolescente che viveva la crescita come un’ascrizione coatta a un ruolo di genere (essere una ragazza) dettato solo dalle convenzioni sociali legate a quel sesso biologico (nascere di sesso femminile) in una brillante sovrapposizione di infantilità ed ermafroditismo intrecciata alla storia dell’eponimo eterno bambino di Barrie; nel secondo capitolo, Stabat mater, troviamo ora un quasi trentenne transgender che affronta la propria ambiguità sociale nel triplice rapporto con: una madre onnipresente (che accetta l’omosessualità, ma non sa nulla del transgendering: ai suoi occhi la figlia è solo un po’ un maschiaccio), un’amante (eterosessuale, che accetta senza troppi problemi il transgendering tanto da voler essere madre) e una psicologa (sposata, madre di famiglia, alla quale il protagonista confessa i propri dubbi identitari e con la quale finirà per flirtare).
Qui, però, sarà necessario chiarire un po’ di punti a oggi ancora confusi. In primis la differenza tra sesso, sessualità e genere. Altrimenti si fa un bel papocchio. Sintetizziamo. Il sesso è quello biologico: maschio, femmina (e percentuali minime di ermafroditismo, cioè compresenza di ambo gli organi genitali). La sessualità, al di là del fatto riproduttivo, è invece legata alle inclinazioni sessuali: con chi si fa sesso (che pur influenzato da – e influenzante – fattori socio-culturali, quindi pubblico-collettivi, rimane un fatto privato). E il genere che va a toccare le sovrastrutture socio-culturali, cioè come un individuo percepisce sesso e sessualità all’interno del contesto in cui vive, segnatamente a come la società stessa, a sua volta, riflette maggioritariamente, e dunque strutturalmente, le questioni di genere nelle relazioni (sociale), nello sviluppo collettivo (cultura) e nella gestione dei rapporti (politica). L’intreccio di questi tre fattori crea la complessità che in questi anni, con grande confusione, è diventata un tema di scottante attualità.
Forzando la mano potremmo dire che il transgendering (chi nasce biologicamente in un sesso ma si non ascrive identitariamente ad esso) somiglia concettualmente alla questione dell’ebraismo: che è un’identità culturale eppure non è necessariamente una fede religiosa né una cittadinanza né un ceto sociale (si pensi a Kafka, che da ebreo boemo parlante tedesco viveva il proprio dissidio tra lingua, religione, nazionalità e ceto).
Torniamo allo Stabat. Dunque. La scena è alquanto essenziale: in alto, sullo sfondo, domina un grande schermo su cui campeggia onnipresente (in video) «la madre» cui il titolo (in eccesso di eco cattolica-iacoponica) fa riferimento. Sparsi per la scena e mossi all’occorrenza in profondità e larghezza: un paio di sedie, un tavolo, due sedili d’auto, un divano, uno stendino e poco altro. Già, perché lo spettacolo non segue una linea cronologica ma procede per salti temporali. Il palco, segnato dal nero, diventa così una macchina introspettiva, una scatola mentale, amplificazione dei complessi del protagonista, che si arrabatta nella sua identità tra ricordo, angoscia, inadeguatezza, ironia, ridicolo, magnitudine.
Che egli sia transgender passa quasi in secondo piano. E questo è il grande merito di Ferracchiati, di smussare la «diversità» in «varietà» e ricondurla a una comune matrice: di individuo, innanzitutto. Complessato, fragile, tenero—come tutti gli altri. Né più né meno né “altro”. Perché se solo ci poniamo una riserva in più nei confronti di questa persona, nel bene o nel male, vuol dire che già la stiamo discriminando, proprio nel senso che stiamo facendo della sua identità di genere un discrimine, una misura e quindi un parametro valido attraverso cui giudicare, e pertanto la stiamo isolando e separando dalla società cui appartiene.
Paradossalmente, però, la maschilità cui il protagonista dello Stabat tende risulta alquanto tipizzata, così che se da un lato la figura socialmente emancipata del transgender viene a rappresentare una libertà oltre le convenzioni borghesi, dall’altro quelle stesse convenzioni ritornano dalla finestra nello stereotipo maschile del ragazzo/uomo sicuro, competitivo, un po’ sbruffone, e come sempre insicuro, represso, mammone. Ciò, inevitabilmente, si riversa sulla scena, rischiando di ridurre a loro volta le quattro figure, appunto, a dei «tipi» e scivolare in un registro (interpretativo e drammaturgico) più simile alla fiction che al teatro.
Viene da chiedersi, allora, come mai un uomo di teatro avveduto come Latella abbia deciso di affrettare così tanto i tempi (ricordiamo che la compagnia esiste da appena due anni, e a Venezia lo Stabat ha avuto il suo debutto nazionale). Che Ferracchiati sia un talento emergente è fuor di dubbio, ma il palco internazionale della Biennale sembra una scelta sconsiderata. Che rischia di far più male che bene. Esponendo la compagnia (a disparità di produzione ed esperienza) a un’aspettativa che inevitabilmente non può soddisfare. Utile forse per la promozione—non certo per la maturazione artistica. Viene il dubbio, allora, che non sia stata sfruttata proprio la categoria transgender, assecondando commercialmente l’onda queer che tanto va, ultimamente (e superficialmente), nel mondo dello spettacolo. Per non voler pensare di peggio. Che di meglio si fatica.
Continuiamo ad essere dell’idea che gli emergenti vadano tutelati anziché fomentati. Perché passata l’onda di encomi e invidie, si voltano presto le spalle. Senza troppi riguardi. Per accogliere il nuovo fenomeno di turno. E questo non ci aiuterà certo a sostenere seriamente una nuova generazione.
Ascolto consigliato
Letture consigliate
• Perché ‘Sense8’ è la migliore serie queer di fantascienza, di Giulia Trincardi (Motherboard)
Studio 1, CAOS, Terni – 16 settembre 2017
STABAT MATER
Trilogia sull’identità – Capitolo II
Ideazione Liv Ferracchiati
Testo e regia Liv Ferracchiati
Con (in ordine alfabetico) Chiara Leoncini, Stella Piccioni, Alice Raffaelli
e la partecipazione video di Laura Marinoni
Dramaturg di scena Greta Cappelletti
Aiuto regia e costumi Laura Dondi
Scene e foto di scena Lucia Menegazzo
Luci e light design Giacomo Marettelli Priorelli
Suono Giacomo Agnifili
Riprese e montaggio Video Studio Carabas
Direttore di scena Emiliano Austeri
Segretaria di compagnia Sara Toni
Ufficio stampa Roberta Rem, Maddalena Peluso, Francesca Torcolini
Un progetto della Compagnia The Baby Walk
Produzione Centro Teatrale MaMiMò e Teatro Stabile dell’Umbria – Ternitestival
Residenza Campo Teatrale Milano
In collaborazione con CAOS – Centro Arti Opificio Siri – Terni