Cronache dal Lido #7
La Mostra del Cinema di Venezia, giorno per giorno, raccontata dai nostri inviati
Mother! – Darren Aronofsky
Mother! è un delirio allegorico che confonde e spiazza. Il nuovo film di Darren Aronofsky, in concorso, si muove attraverso atmosfere claustrofobiche ed eccessive metafore metafisico-religiose. Ci sono molte idee interessanti, originali e suggestive, ma ce ne sono troppe. Sicuramente ci sono vari piani di lettura, fra cui il rapporto simbiotico fra la casa e la protagonista (Jennifer Lawrence), allegoria della Madre Terra che dona se stessa e subisce una violenta invasione da parte della razza umana. Perché se la Madre è la casa e la Terra, il protagonista maschile (Javier Bardem) è una sorta di Creatore, un demiurgo che vive grazie alla sua creazione e si nutre di essa e del suo amore. Ma i simbolismi legati al cristianesimo si sprecano: i personaggi interpretati da Ed Harris e Michelle Pfeiffer rimandano ad Adamo ed Eva e i loro figli a Caino e Abele. Gli uomini invadono la casa-terra, vengono cacciati per poi tornare e distruggere tutto quello che toccano. Vittima e carnefice dell’apocalisse è proprio la Madre, violata e maltrattata. Ma dopo la distruzione, c’è la rinascita, una nuova creazione. Impossibile parlare di Mother! senza fare un discorso allegorico e simbolico. Visivamente potente, il film di Aronofsky imbocca tante, troppe direzioni, certamente interessanti, che però alla fine generano confusione e disorientamento.
The Third Murder – Kore-eda Hirokazu
L’ironia della sorte vuole che la più valida tra le poche pellicole di genere in concorso sia stata diretta da un autore che è stato sin da subito riconosciuto come il successore naturale del cinema realista di Yasujirō Ozu: si parla di Kore-eda Hirokazu e del suo The Third Murder, un filosofico thriller legale, delicato come un soffione e di grandiosa intensità, nonostante la fluviale durata e un ritmo di certo non vertiginoso.
Shigemori (Fukuyama Masaharu) è un raffinato avvocato, ingaggiato per la difesa di Misumi (Yakusho Kōji), un povero operaio che ha già scontato 30 anni di prigione per un duplice omicidio e che confessa di aver barbaramente ucciso il suo padrone per poi bruciarne il cadavere.
Dando a ogni personaggio uno sguardo privilegiato, quello del regista è un raccontare progressivo che non ha bisogno di alcun fatto eclatante da enfatizzare e che si nutre di tragedie per poi restituire poesia. In The Third Murder, verità e finzione, giustizia e vendetta si sovrappongono come in un’esposizione multipla, tecnica cinematografica perfettamente utilizzata per catturare i volti di Shigemori e Misumi nell’ultimo ambiguo interrogatorio. Cinema umanista che lentamente impone se stesso.
Jim & Andy: The Great Beyond – Chris Smith
Finalmente ecco un leggero intermezzo, fuori concorso, nell’esagerata pretenziosità di molti film del festival. C’è una bellissima scena di un vecchio film di Preston Sturges – I dimenticati (1941) – che rappresenta al meglio il nobile ruolo del cinema comico: dei condannati ai lavori forzati assistono, incatenati l’uno all’altro, alla proiezione di un cartone animato della Disney con la faccia deformata dal divertimento. A una risata provocata dai film d’intrattenimento, lo spettatore può appendere tutte le proprie speranze per poi risollevarsi. Tale messaggio incarna alla perfezione l’oggetto dell’esistenza di due geni della comicità irriverente dell’ultimo mezzo secolo come Jim Carrey e Andy Kaufman.
Il documentario Jim & Andy: The Great Beyond è più cose insieme: una sincera intervista in cui Jim Carrey racconta il suo percorso d’attore e il debito che ha nei confronti di Andy Kaufman, la cui eredità affascina ancora; un intimo e assolutamente folle dietro le quinte di Man on the Moon, biopic su Kaufman diretto da Miloš Forman e interpretato dallo stesso Carrey; una riflessione sull’importanza di tentare l’impensabile, quel «I’m pushing an elephant up the stairs…» cantato dai R.E.M. proprio in The Great Beyond. Ridere per sopravvivere.
My Generation – David Batty
«Ero in una cabina telefonica. Il mio agente mi comunicò che per iscrivermi al sindacato degli attori e accettare il mio primo ruolo da protagonista avrei dovuto cambiare cognome: c’era già qualcuno che aveva registrato il mio. Mi guardai intorno e in un cinema era esposta la locandina del film L’ammutinamento del Caine, con uno dei miei attori preferiti, Humphrey Bogart. Decisi di chiamarmi Michael Caine. Se avessi guardato il cinema dall’altro lato della strada mi sarei chiamato Michael La carica dei 101». È questo uno degli aneddoti più divertenti che Sir Michael Caine, al secolo Maurice Joseph Micklewhite, racconta nel bel documentario di David Batty My Generation, un trascinante e nostalgico omaggio agli anni della Swinging London presentato fuori concorso alla Mostra.
Di quegli anni Caine è stato protagonista indiscusso, insieme a numerosi altri personaggi che nei loro ambiti d’azione hanno contribuito a innescare il motore di una grande rivoluzione culturale. Le canzoni dei Beatles e degli Stones, le fotografie di David Bailey, le minigonne di Mary Quant e i caschetti di Vidal Sassoon: un caleidoscopico mosaico di tasselli che riuscì a determinare profondi cambiamenti in una società, ancora molto rigida e conservatrice, come quella britannica degli anni ‘50. Mai prima di allora un giovanotto “cockney” come Michael Caine, figlio di una casalinga e di uno scaricatore di porto, avrebbe potuto sognare di fare carriera nel mondo dello spettacolo. Caine ci è riuscito, senza soffrire di complessi di inferiorità, e conservando intatta, lungo una strepitosa carriera di oltre 60 anni, la sua identità. Il segreto? «Non sognate mai in piccolo».