È sempre sgarbato, quando si parla di musica, iniziare con un paragone o un accostamento, ma in questo caso è necessario per rendere l’idea: dopo l’ascolto di Good Luck mi son venuti in mente immediatamente i Radiohead; non mi riferisco alle sonorità ma quanto all’attitudine al cambiamento, al fare bene ogni cosa che viene proposta, alla cura e la forte personalità che dimostrano in ogni produzione. Per farla breve, si può considerare i Giardini di Mirò una delle migliori band dell’ultimo decennio a livello internazionale.
Sin dal primo full lenght The Rise And Fall Of Academic Drifting, onirico e potente allo stesso tempo, la band metteva in luce una forte personalità e personalizzazione del suono, un marchio di fabbrica: una cosa non facile per chi si cimenta col post-rock. Ma la band nel corso dei vari dischi è riuscita sempre ad evolversi: dalla maggiore presenza dell’aspetto vocale (Punk..Not Diet), a sublimi addomesticamenti notturni del suono (Dividing Opinions) sino ad arrivare all’imponenza del concept-album Il Fuoco del 2009. E il nuovo album conferma questa loro magnificenza.
Good Luck, non ha un significato particolare, ma è semplicemente un augurio, un invito all’ottimismo, come ha dichiarato Corrado Nuccini a Repubblica XL: Si sa, ci attendono tempi bui, ma oltre al pessimismo della ragione serve l’ottimismo della volontà e noi, nel nostro piccolo, cerchiamo di trasmettervelo con questo album, con le canzoni che scriviamo e coi buoni auspici che possono nascere dalle relazioni che la musica crea.
Ed è proprio vero: con le otto composizioni emanano vibrazioni positive, grazie a sonorità più alleggerite, sopraffini, seppur sempre caratterizzate da trame musicali elaborate e non prive di distorsioni e passaggi oscuri: alcuni pezzi tendono verso un alt-pop-rock raffinato e altri vedono la migrazione verso un suono cosiddetto alternative (ovvero indefinibile o non categorizzabile per le molteplici sfumature) che si appoggia sulla loro natura post-rock.
Questo disco ha visto il cambio alla batteria: via Francesco Donadello (che comunque ha suonato nella maggior parte dei pezzi), al suo posto è stato chiamato Andrea Mancin. E come è successo già per altri album, sono presenti ospiti d’eccezione di una certa caratura: Sara Lov dei Devics ( in There is a Place) e Angela Baraldi (in Rome e Spurious Love, nella quale è presente anche il chitarrista Stefano Pila).
Il primo capitolo è Memorie con un’unica linea di chitarra abbozzata, una batteria scarna e una voce sussurrata coadiuvata da un back vocal impeccabile. Un pezzo che visivamente richiama una stessa immagina proiettata continuamente, ma con leggeri e subliminali cambiamenti di ogni scatto che ci introducono in un onrico loop.
Attacco più grintoso per la successiva Spurious Love, nella quale la voce è più imponente (impreziosita dal back vocal di Angela Baraldi) e il suono più corposo, soprattutto grazie alla batteria più pulsante e un violino che lentamente ruba la scena e si fonde con le distorsioni finali. Ride è fra i pezzi che più rappresentano quanto dicevamo prima: ritmo incalzante con una frenetica rincorsa fra gli strumenti e che ricorda molto alcuni pezzi di Dividing Opinions, ma con una patina più luminosa.
Come una diva d’altri tempi entra in scena l’ipnotica voce di Sara Lov in There is a Place: un pezzo dall’imponente valore esperienziale; suono vibrante, malinconico, dovuto soprattutto alla saggezza con cui è dosato il violino che sostiene l’intrecciarsi delle voci nel ritornello sulle poetiche parole «there is a place for us to discover a new way for dancing in the mud». Il tocco di classe è nel finale, con una tromba solenne che farebbe crollare qualsiasi muro emozionale.
Good Luck è un pezzo dalla struttura post-rock più classica: una lunga cavalcata caratterizzata da chitarre più energiche e l’inserimento dei fiati (e nel finale del violino) dona quel tocco di classe che riprende e ricorda le linee stilistiche dell’ultimo album dei Dirty Three. Rome riporta la voce di Angela Baraldi (più decisiva rispetto a Spurious Love) e anche una certa atmosfera rarefatta; dopo un inizio teso caratterizzato da rintocchi di chitarra, un violino tagliente e il fantasma del piano elettrico, il suono si evolve, si irrobustisce e si lancia una progressione distorta da brividi. Il momento più intenso e interessante dell’album.
Time on Time, con echi di wave e dalla semplicità apparente, è come un fiammifero acceso e che molto lentamente si spegne: il suono più si avvicina al finale, più si dilata e si assottiglia. L’album si conclude con Flat Heart Society, una nuova dimostrazione della libertà di campo dei Giardini di Mirò e del loro rifiuto di qualsiasi schema; una canzone di quasi sette minuti (una dei più notturni dell’album) che alterna momenti sospesi e impalpabili a accelerazioni e progressioni più fisiche con il merito di evitare passaggi forzati.
Good Luck è un disco senza punti morti e pieno di spunti per il futuro: varietà di stili, cura brillante degli arrangiamenti, l’eleganza che sprigiona ogni singola traccia. I Giardini di Mirò aggiungono un altro importante mattone alla loro brillante carriera; forse è un lavoro meno eclatante e univoco dei precedenti ma dimostra come anche dopo tanti anni di carriera si possa fare musica ad alti livelli. E questa è una caratteristica che appartiene solo ai grandi.