Curarsi con la parola
La quotidianità di una badante secondo Barbara Eforo
Ci sono parole che, loro malgrado, sembrano sottendere un fastidioso pregiudizio: prendiamo, per esempio, la badante. «Badante» è una di quelle che si pronunciano già con una certa diffidenza, forse perché rimanda alla vecchiaia e a tutte le ‘fastidiose’ incombenze che questa si porta con sé. Come le badanti, per l’appunto. Donne – principalmente – dell’Est in cerca di lavoro e di una vita migliore, tendenzialmente guardate con superficialità e un certo sospetto, come se non fosse abbastanza interessante chiedersi chi si nasconda dietro quel lavoro, quella storia, quello sguardo.
Ma poi arriva uno spettacolo, minuto e un po’ defilato che invita proprio a lasciarsi alle spalle i soliti luoghi comuni per scoprire, senza leziosità o retorica di sorta, una condizione poco esplorata. Si tratta della vita delle badanti, un mondo che Barbara Eforo, interprete e regista de La Cura, ha conosciuto personalmente attraverso racconti in prima persona e soprattutto uno in particolare, trasfigurato poi in una drammaturgia scenica che, quasi a partire dalle stesse parole, rivela una quotidianità dolente e rarefatta.
Nella piccola sala intima e familiare del Teatroblue, un gioiello nascosto che si raggiunge scendendo le scale di via Cola di Rienzo n.8, Barbara Eforo è protagonista così di un monologo a due voci in cui si alternano parola e silenzio, giovinezza e vecchiaia, tempo presente e tempo perduto. Circondata da un tavolo, una sedia e pochi oggetti quotidiani simbolici e dai contorni vagamente onirici, la badante racconta e si racconta a un’anziana ritrosa e scorbutica – che Eforo stessa intepreta con un efficace cambio di postura, gesti e immaginario – sempre più ostile al mondo e forse invidiosa della giovinezza di chi l’accudisce.
Racconta di quando «nel suo Paese» insegnava musica e lavorava al mercato, del suo viaggio, dei suoi figli, dei vecchi per niente buoni e dei loro dispetti; fuma, fa partire vecchie videocassette, si muove spazientita o con dolcezza e ha i suoi momenti di cedimento per quelle parole che tanto cerca e così spesso non arrivano.
Ed è proprio la parola infatti il fulcro della ricerca di Barbara Eforo: la parola come difficoltà di esprimersi in una lingua diversa, che l’attrice riproduce nello sforzo di parlare un italiano con inflessioni russe; la parola come un lungo viaggio nostalgico da una cultura a un’altra; ma soprattutto – più delle medicine – la parola intesa quale condivisione della propria vita e rivelazione di sé come forse unica cura possibile nei confronti di chi sente che la morte è vicina.
Così, senza la pretesa di grandi rivelazioni o colpi di scena, ma con sguardo sensibile e amorevole, Eforo porta in scena – prima di una badante – una donna con la sua piccola storia, i suoi difetti, la sua rabbia e i suoi desideri, lasciando emergere altresì la tenerezza e insieme la ferocia che contraddistingue questa grande rimozione che è la vecchiaia. Come nella toccante scena finale di un ideale ricongiungimento all’origine, quando si sente la voce ancora balbettante di una bambina dal mangiacassette contrapposta al silenzio imperscrutabile di un’anziana che sa che il suo tempo è ormai spazzato via.
«È il tempo che hai perso dietro alla tua rosa che ne ha fatto la tua.»
Teatroblue, Roma – 22 aprile 2017
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