Tradire un classico, cioè tradurlo
Sinisi ci consegna tutta la cultura di Miseria e Nobiltà
Tradurre è un po’ tradire, recita il detto. Ma cos’è che vuol dire? Perché “tradire”, in realtà, etimologicamente parlando, non significa affatto “venir meno a un patto di fiducia” bensì “consegnare”. A quanto pare però, se il significato si è corrotto tanto, questa “consegna” non dev’essere stata mossa dalle ragioni più nobili. E ora ce la teniamo nella sua versione più cinica. Una traccia dell’antica radice latina, tuttavia, si è conservata, la ritroviamo nella parola “tradizione”, che starebbe a intendere, infatti, ciò che viene “consegnato di mano in mano” generazione dopo generazione – nel tempo. Pertanto la domanda è: qual è il passato che ci viene consegnato?
Subentra così il secondo termine in questione – ora arriviamo al punto –: la traduzione, cioè quel passaggio guidato da una parte all’altra (trans-ducĕre). Insomma, volendo riscrivere il detto con un minimo di rispetto etimologico, “tradurre è un po’ tradire” potrebbe essere proposto così: accompagnare è un po’ trasmettere.
Ebbene, quando si parla di attualizzazione (leggi “riattivazione”) dei classici, la posta in gioco è proprio questa: il nostro attualizzatore, accompagnandoci nella riscoperta di un’eredità del passato, cosa sta cercando di trasmettercene?
Giungiamo così a un caposaldo della tradizione italiana teatrale: Miseria e Nobiltà del commediografo napoletano Eduardo Scarpetta. Tradotto e tradito dal regista-attore Michele Sinisi (ex Teatro Minimo), lo spettacolo riapproda al Sala Fontana di Milano a un anno dal fortunato debutto nel dicembre 2015 (produzione Elsinor).
Si è scritto molto – e a ragione – dei felici tradimenti che caratterizzano questa messa in scena, evidenziandone il costante confronto più con la versione cinematografica del ’54 che con il testo del 1887; o del superamento (nella scarnificazione scenica) della confezione commedia; o dell’allargamento dialettale oltre i confini della Napoli scarpettiana che infonde un respiro più nazionale; o ancora dell’efficace (nonché gustosissimo) affiatamento degli undici talenti – emergenti e consolidati – che nonostante i dovuti eccessi non cedono mai all’istrionismo. Tutto vero.
Tuttavia c’è un dato, diremmo prospettico, che ci sembra sia rimasto in sordina. Diversamente da, mettiamo, Antonio Latella che lavora nell’ottica di una destrutturazione dei classici e riproposizione drammaturgica (spesso fraintesa, non sempre riuscita) attenta ma perturbante perché non tradizionalmente rassicurante; Sinisi invece in questo percorso di traduzione-accompagnamento del/al classico procede per tutt’altra strada. Al regista pugliese infatti non interessa una restituzione strettamente filologica né tantomeno “tradizionale”, no, quella di Sinisi si potrebbe definire una “riscrittura culturale”, una drammaturgia traduzionale (sic), egli cioè va ad affondare le mani in ciò che quel dato classico ha accumulato su di sé nel tempo oltre le sue origini: come è stato assorbito, elaborato, frainteso, alterato, riproposto; lavorando sull’immaginario collettivo senza rifiutare possibili corruzioni.
Insomma, Sinisi non porta in scena Miseria e Nobiltà di Scarpetta, porta in scena ciò che Miseria e Nobiltà – oggi – è giunto a rappresentare culturalmente.
Sì, la storia rimane sempre quella: un piccolo manipolo di pezzentelli che si spacciano nobili per facilitare le nozze di un giovane riccastro con la figlia-ballerina di un piccolo borghese arricchito, nozze cui la vera famiglia del marchesino non avrebbe mai acconsentito; una ‘recita nella recita’ che innescherà gaffes, equivoci e gag esilaranti. Ma il Miseria & Nobiltà di Sinisi non fa “così” ridere, nel senso che non è incentrato su questo. E gli attori – Ciro Masella, Stefano Braschi e Gianni D’Addario in primis – sono magistralmente dimessi; anche se questa discrezione comica (come tutto ciò che è giocato per sottrazione) non si nota subito.
Sulla scena regna l’assenza. Incorniciata a destra da una tubatura verticale che si strozza in una curva a metà altezza, e più sulla sinistra da una finta botola che manda un freddo bagliore da neon, dal suo interno, verso la scena. Siamo in un sottosuolo. E Michele Sinisi, deus ex machina intermittente, puntellerà la rappresentazione con irruzioni improvvise, sempre nette, irruente, quasi violente, tirando con forza le funi, spostando i pochi arredi di scena, interrompendo gli attori, sempre teso su quella linea immaginaria che collega la tubatura a la botola. Tubatura e botola che hanno un’importanza metaforica cardinale.
La tubatura è il correlativo oggettivo della commedia, che gioca di intrecci, ambiguità, fraintendimenti, intoppi, strozzature; ma “ogni scherzo è bello quando dura poco”, sennò diventa puro intrattenimento. Ed è proprio per questo che di tanto in tanto il regista si avvicina a quella strana presenza così fuori luogo, tira una catena da sciacquone e libera l’intasamento comico. Allo stesso modo la botola gioca da cinematografo. Quella luce patinata e algida emanata su ciò che intanto viene portato in scena è come se dicesse “ora si proietta” (cosa? Miseria e nobiltà. Ma che cos’è Miseria e Nobiltà?…): è il bagliore della convenzione, è quella patina che fa l’arte, o che dovrebbe farla, o che ci si illude la faccia, ma non solo nel suo senso “negativo”, è una luce culturale, quindi di tutti, che se storicizzata può mostrare un fuoco ultra-stereotipi. E ancora una volta Sinisi sarà lì, a orientarla, a muoverla, a custodirla, o a chiuderla selvaggiamente atto dopo atto quasi urlasse “ora basta”.
Intendiamoci, lo spirito della commedia rimane, lo spettacolo è divertente, ma questi elementi apparentemente marginali ci mostrano un’esigenza artistica, quasi una febbre, che arde ferocemente, che vuole manifestarsi, scolpendo e distruggendo il vuoto (il modus operandi del Riccardo III di Teatro Minimo qui fa un passo ulteriore). La buona furia di Sinisi scuote lo spettatore, non rassicura, come a ricordargli che c’è qualcosa che non va e, parallelamente, qualcosa che non riesce a manifestarsi ma che pur pulsa (non a caso all’ultimo quella botola sarà ruotata fino a invadere, con la sua piccola luce, la platea).
Questa è la traduzione – e il tradimento – di Michele Sinisi, più artistica che strettamente registica o drammaturgica, quella di un’eredità che chiede di essere tramandata non – almeno in prima istanza – intellettualmente. O volendo essere brutalmente espliciti. È come se Sinisi – non ce ne voglia – dicesse: il teatro non può essere una bolla dove tutto accade secondo ritmi propri e indipendenti, entrando qui non si accede a un altro mondo separato da quello sporco e bruciante che attende fuori dalle porte della sala. Tutto quanto è cultura, basta con la distinzione fra alto e basso, l’unico scarto fra ciò che è nobile e ciò che è misero va cercato nella sua onestà.
Tradurre e tradire. Attraversare, accompagnare, consegnare.
Questo è il merito più profondo di Miseria & Nobiltà, ritornare a un teatro che non vive di astrazioni.
Ascolto consigliato
Confronti critici:
• Video-Intervista a Michele Sinisi, a cura di Renzo Francabandera (PAC)
• Miseria & Nobiltà di Elsinor e Sinisi. Del mestiere del vivere recitando, di Mario Bianchi (KLP)
• Miseria e Nobiltà. Il sogno farsesco di Michele Sinisi, di Ilaria Rossini (TeC)
• Evviva la farsa, di Andrea Porcheddu (Gli Stati Generali)
Teatro Sala Fontana, Milano – 28 gennaio 2017
Crediti ufficiali:
MISERIA & NOBILTÀ
dal testo di Eduardo Scarpetta
regia Michele Sinisi
scritto con Francesco M. Asselta
con Diletta Acquaviva, Stefano Braschi, Gianni D’addario, Gianluca delle Fontane, Giulia Eugeni, Francesca Gabucci, Ciro Masella, Stefania Medri Giuditta Mingucci, Donato Paternoster, Michele Sinisi
scene Federico Biancalani
direzione tecnica Rossano Siragusano
costumi GdF Studio
Assistente ai costumi Arman Avetikyan
Aiuto regia Domenico Ingenito, Roberta Rosignoli
Foto di scena Sonia Santagostino
Produzione Elsinor Centro di Produzione Teatrale