Il lato umano dell’economia
Il fallimento dei Lehman è l'ultimo successo di Ronconi
Uno sguardo superficiale, lo sappiamo bene, non facilita una corretta lettura degli eventi. Prendiamo ad esempio Lehman Trilogy, l’ultimo spettacolo di Luca Ronconi. Tratta un argomento – l’economia – che raramente ritroviamo su un palco teatrale. Sarà forse per la sua peculiarità di essere poco conosciuto fino in fondo o per il timore che risulti poco avvincente, fatto sta che non è proprio uno dei temi più blasonati. Per di più narra una storia – quella della Lehman Brothers – già nota a molti, specie dopo l’eclatante fallimento del 2008 che ha innestato un processo di crisi diramatosi anche fuori dagli Stati Uniti con conseguenze percettibili ancora oggi. A questo aggiungiamo che la durata dello spettacolo – diviso in due parti – è di quasi cinque ore, che la scenografia è scarna e che, nonostante si parli molto, i tanti personaggi in scena dialogano poco tra loro.
Di primo acchito, insomma, niente di memorabile. Eppure lo spettacolo ha conquistato ben cinque Premi Ubu lo scorso anno (Spettacolo dell’anno, Miglior allestimento scenico, Nuovo testo italiano, Miglior attore a Massimo Popolizio e Attore under 35 a Fabrizio Falco), e, a due anni dal debutto, continua a far registrare un sold-out dietro l’altro.
È innegabile che ci siano dei fattori che abbiano contribuito a questo successo. Lehman Trilogy è stata, infatti, l’ultima regia di Luca Ronconi, uno dei registi che ha rivoluzionato il teatro italiano nello scorso secolo; vanta nel suo cast alcuni degli attori più importanti dell’attuale scena teatrale italiana; e il suo autore – Stefano Massini – è uno degli scrittori più apprezzati in patria e all’estero, nonché consulente artistico del Piccolo proprio dopo Ronconi. Ma questo forse non basta ancora a chiarire la riuscita di questa operazione teatrale.
Uno dei pregi maggiori del lavoro di Massini-Ronconi, infatti, è stato quello di aver umanizzato la fredda disciplina economica facendo emergere i paradossi della Storia e smascherando, in questo modo, i luoghi comuni che aleggiano attorno a essa. Per arrivare a questo fine, la coppia ha scelto di concentrarsi sull’epopea famigliare di una dinastia che decide, nel corso degli anni, di convertirsi dalla religione ebraica a quella del capitalismo.
Una sorta di ritratto di famiglia che riesce, dunque, a decostruire lo stereotipo dell’avido, cinico e approfittatore uomo di affari; quello che, per intenderci, nella seconda metà degli anni Ottanta ha preso nell’immaginario collettivo le fattezze di Gordon Gekko (Wall Street, Oliver Stone, 1987). Lungi dall’essere dipinti come aguzzini e sfruttatori, infatti, i Lehman mostrano il loro lato meno noto, e – decennio dopo decennio – dimostrano di aver anche cercato di soddisfare le esigenze dettate dalla loro stessa società, in seguito condannata – al pari degli istituti di credito – dalla sua stessa spregiudicatezza. Ma prima di analizzare meglio quello che è, a tutti gli effetti, il punto focale, veniamo allo spettacolo.
La scena (Marco Rossi) è semi-vuota: un mosaico di tavole di legno compone il pavimento dal quale appaiono e scompaiono pochi oggetti essenziali come sedie, pedane e tavoli. Tutto è mutevole come le varie insegne della Lehman che si alternano durante lo spettacolo; tutto, o quasi. Rimane sospeso in aria, infatti, un orologio che indicherà per l’intera la durata della messinscena le 7:25. Inizia proprio a quell’ora, nel mattino dell’11 settembre 1884, l’epopea dei Lehman: con l’approdo a New York di Henry (Massimo De Francovich), la “testa” dei tre fratelli.
Dopo lo sbarco si trasferirà subito a Montgomery (Alabama) dove verrà raggiunto dai suoi fratelli, Emanuel (Fabrizio Gifuni) – il “braccio” – e Mayer (Massimo Popolizio), il “mediatore” che sta tra la testa e il braccio “affinché il braccio non spacchi la testa e la testa non umili il braccio”. Da un semplice negozio di cotone diventeranno mediatori tra le piantagioni del Sud e le industrie del Nord, iniziando a costruire dal basso un vero e proprio impero.
Audacia, intelligenza, fortuna: i Lehman sono alla ricerca costante dell’affare migliore, e il loro fiuto li porterà prima a entrare nel “business” delle ferrovie e dopo ad approdare a New York, dove a muovere i fili dell’impresa di famiglia ci sarà Philip (Paolo Pierobon) – figlio di Emanuel – che sposterà l’attività dalla produzione agli investimenti. I capitali si moltiplicano, il raggio di azione si amplia e intanto il potere arriva alla terza generazione con Bobbie (Fausto Cabra). Ma tra battute d’arresto e riprese, un inesorabile declino colpirà la Lehman Brothers, fino a sancirne il fallimento nel 2008, anno in cui della famiglia è ormai rimasta solo la scritta sul palazzo newyorkese.
Lehman Trilogy approfondisce molto il passato remoto mentre concede (forse troppo) poco spazio a quello prossimo. Gli eventi, infatti, sono analizzati in maniera più dettagliata nel periodo che va dall’approdo in America al crollo di Wall Street del ’29, mentre tutto il resto procede frettolosamente per grandi linee. Ma se da un lato questo crea nell’economia dello spettacolo un netto dislivello narrativo, percepibile tra prima e seconda parte; dall’altro focalizza l’attenzione sulle cause e soprattutto sui colpevoli di un crack che ha delle radici molto più lunghe di quanto si pensi.
Già, perché durante la sua lunga storia, la Lehman Brothers è stata lo specchio della sua società. Le ferrovie, le industrie petrolifere e quelle automobilistiche (solo per citarne alcune) sono state, infatti, finanziate dalla Lehman e dalle altre banche mediante la sottoscrizione di obbligazioni sulle quali i risparmiatori hanno investito il proprio capitale al fine di moltiplicarlo. Questo metodo di arricchimento “facile” ha portato le banche – anno dopo anno e sempre sotto la spinta dei risparmiatori – ad aumentare il rischio puntando su operazioni finanziarie sempre più redditizie ma altresì spericolate. Ed è proprio questo gioco, ormai divenuto d’azzardo, che ha fatto collassare l’intero sistema.
Lo spettacolo, dunque, “sbanca” proprio perché ci mostra le radici di questo fallimento; e in tal senso l’epilogo è alquanto suggestivo. Tutti i componenti del nucleo originario dei Lehman, ormai defunti, attendono la telefonata che annuncia la fine della storica ditta. In un’esistenza di conversioni e rinunce in nome degli affari, a questi uomini non rimane altro che assistere, sconfortati e inermi, al proprio fallimento. Certo, ma anche a quello della società stessa.
Ascolto consigliato
Teatro Argentina, Roma – 17 e 18 dicembre 2016
Crediti:
LEHMAN TRILOGY
di Stefano Massini
regia Luca Ronconi
con (in ordine di apparizione) Massimo De Francovich, Fabrizio Gifuni
Massimo Popolizio, Martin Ilunga Chishimba, Paolo Pierobon, Fabrizio Falco
Raffaele Esposito, Denis Fasolo, Roberto Zibetti, Fausto Cabra
Francesca Ciocchetti, Laila Maria Fernandez
scene Marco Rossi
costumi Gianluca Sbicca
luci A. J. Weissbard
suono Hubert Westkemper
foto Luigi La Selva