La vanità del piacere
I Fatti d'Arte mettono in scena le 'Pene d'amor perdute' shakespeariane
Eccoci nuovamente alle prese con William Shakespeare. Non passa mese, settimana o giorno senza che qualche compagnia decida di confrontarsi con il Bardo. E come dargli torto d’altronde. Questa volta, però, l’occasione ha un certo peso specifico. A poche settimane dal quattrocentesimo anniversario dalla morte, infatti, la compagnia Fatti d’Arte ha curato un intero festival, della durata di una settimana, dedicato al drammaturgo inglese, che ha avuto come fulcro l’allestimento di Pene d’amor perdute, produzione della stessa compagnia, per la regia di Raffaele Romita.
Bizzarra e spesso bistrattata dalla critica salvo poi rivalutarla nel corso degli anni questa opera giovanile di Shakespeare ha tra i suoi aspetti di maggior pregio il gioco linguistico che mette in contrapposizione delle categorie ben definite: anziani/giovani e nobili/contadini. Una festa del linguaggio che in questa messinscena complici i necessari tagli viene accantonata se non per brevi contrasti linguistici tra i protagonisti principali e Armado, inconsapevole zoticone coadiuvato dal suo (in)fedele servo Zucca. Da qui appare ben chiaro che l’obiettivo della compagnia è di concentrarsi sulla fabula, restituita in chiave comico-farsesca con ampie concessioni alla spettacolarizzazione visiva.
Pur mantenendo inalterata la shakespeariana contrattazione per l’Aquitania tra i due regni limitrofi avvenuta negli anni successivi alla guerra dei cent’anni la pièce è ambientata formalmente alla vigilia del secondo conflitto mondiale. Una scelta che, pur esaltando l’universalità e l’atemporalità del Bardo, non può non creare un minimo spaesamento cognitivo. In questo ambiente cortigiano/militaresco, il Re di Navarra, con un discorso solenne e autoritario, coinvolge i suoi due baroni nel piano di rinuncia ai piaceri degli anni migliori, per dedicare tre lunghi anni alla solitudine e allo studio. La rigidità accademica, però, lascerà subito spazio alla spensieratezza della giovane età. L’arrivo della Principessa di Francia, accompagnata dalle sue cortigiane e dal nobile Boyet, infatti, manda all’aria il loro progetto, dando il via a un goffo corteggiamento farcito di equivoci e doppi sensi.
Romita crea un quadro polimorfo ben congeniato, in cui i tanti momenti d’ilarità incontrano fugaci passaggi di riflessione. Costruzioni slapstick alla Buster Keaton; sketch che richiamano le commedie e le serie americane degli anni Settanta; intermezzi coreografici musicati e coinvolgimento del pubblico: con questi espedienti la compagnia riesce a creare quel clima di leggerezza che consente allo spettacolo di non subire cali ritmici, nonostante le tre ore scarse di durata. Un fattore, quello della durata, sul quale però dovrà fare i conti, considerata l’impazienza dello spettatore moderno, abituato ad abbandonare la sala o a bofonchiare dopo la prima ora e mezza.
In quella che appare superficialmente un’esilarante e gigionesca messinscena, emerge però lentamente la sentenza di Shakespeare, palesata nell’insolito finale aperto, reso ancora più aspro dal contesto storico scelto: le coppie appena formate dovranno allontanarsi, confermando che spesso i piaceri procacciati con fatica conducono ad altre pene, e tra queste, quelle d’amore, sono sempre e comunque necessarie e vane, dominate e perdute.
Ascolto consigliato
Teatro Traetta, Bitonto – 11 marzo 2016