Foto di scena ©Guido Mencari

Narrare per sopravvivere

Il destino della donna nelle Mille e una Notte del Teatro del Carretto

Narrare per sopravvivere. È questa la sintesi estrema delle Mille e una notte. Shahrazād racconta perché la notte passi e ogni volta la furia di vendetta del Sultano Shahrīyār si plachi. Ancora una, ancora un’altra, per scampare alla morte. Tutti conosciamo la storia, ma cosa significa?

Raccontare in fondo è un modo di rievocare il passato, di reinventarlo o di immaginare una possibilità non realizzata: ma a ben guardare o si vive o si racconta. Ecco, è proprio in questo divario che si inserisce l’arte, una dimensione in cui “raccontare per sopravvivere” non sembra più un paradosso. Shahrazād infatti rappresenta l’artista: sa che sposare il Sultano significa andare incontro a morte certa, eppure non si rifiuta, anzi, si offre di sua spontanea volontà – e racconta, perché attraverso i suoi racconti Shahrīyār rinsavisca.

Ed è così che lo spettatore va a teatro: non perché in sé e per sé “gliene venga qualcosa”, né perché senza la sua presenza l’artista morrebbe, ma perché in questo farsi gli uni incontro agli altri può scoccare qualcosa di imprevedibile, qualcosa che disinneschi il trito meccanismo del sopravviversi.

Ora. La storica compagnia lucchese il Teatro del Carretto approda al Vascello con Le mille e una notte. Il richiamo al vasto repertorio mediorientale, però, qui è soprattutto nominale, o meglio, strutturale: Maria Grazia Cipriani (regista e drammaturga), infatti, non porta in scena sceicchi ciechi, lampade magiche, ladroni o caverne d’oro, no, il repertorio narrativo di riferimento è decisamente più eurocentrico (mitologia greca, tragedie shakespeariane, l’Orlando ariostesco), ma delle Mille una notte si mantiene l’intertestualità e i continui echi fra un quadro e l’altro. A fare da cornice forte la figura della donna che, narrando, lotta per sopravvivere.

Foto di scena ©Guido Mencari

Non a caso la scena è un largo quadrato centrale che come un ring delimita l’area dello scontro (scene e costumi Graziano Gregori). Da un lato la donna, delicata, sensibile, fragile, dall’altro l’uomo, nerboruto, istintivo, violento. Tra di loro un terzo. Più che mediare però si direbbe che faccia da specchio deforme, quasi ridicolo: è l’ironia. È un elemento estraneo eppure interno, fondamentale, che suggerisce battute, porge gli abiti, commenta con le sue smorfie sghembe lo sviluppo di questa eterna lotta – impari – tra i due sessi (brillante interpretazione di Elsa Bossi, Fabio Pappacena e Giacomo Vezzani). C’è un che di fascinosamente artigianale nella costruzione del Teatro del Carretto, quasi sembra di assistere alla recita a braccio di una compagnia di giro: alto e basso perfettamente fusi, tragico e comico in continua rincorsa,  mantenendo un brillante scarto ironico fra il dramma “raccontato” e la sua “rappresentazione” (suoni Luca Contini, luci Fabio Giommarelli).

Foto di scena ©Guido Mencari

A un tratto però – circa a metà – lo spettacolo cambia completamente registro. Dopo l’ennesimo scontro il corpo della donna giace inerte al centro della scena, e lì rimane, mentre dal fondo del quadrato (una parete chiara, alta poco più di due metri) appaiono due banditori in camicia bianca che battono all’asta sudari insanguinati: sono gli abiti sviliti a feticcio delle donne che ancora oggi, di guerra in guerra, vengono violentate, sfregiate, uccise. E d’improvviso l’ironia gela il sangue.

Foto di scena ©Guido Mencari

Tutto potrebbe concludersi: l’effetto è laconico, schiacciante, grottescamente brillante, come quei carillon scheletrici in abito lungo che a ogni scontro dei sessi ruotano in proscenio come una macabra clessidra avvitata su sé stessa, ennesimo richiamo spiazzante alla condizione della donna nei secoli. Ma lo spettacolo prosegue e una voce fuori campo comincia a indugiare in testimonianze di violenza subita, il cadavere al centro si rianima, la retorica del dolore si fa esplicita e tutta lo splendido equilibrio precedente si infrange. Non si racconta più, si spiega. Shahrazād perde la sua anima artistica, ora è solo vittima: sposa che vince il sultano, sì, ma comunque destinata a essere divorata dalla società maschilista.

Foto di scena ©Guido Mencari

Ecco allora che ritorna il fragile equilibrio – proprio dell’arte – tra racconto e vita. L’urgenza ideologica, qui, per quanto condivisibile, finisce per intaccare la composizione stessa dello spettacolo, senza riuscire altresì ad andare oltre la denuncia: cosa genera la violenza virile? È un fattore socioculturale oppure endemico? E come trovare un’armonia fra i due sessi? Non basta individuare le responsabilità, è necessario anche capire come agire, altrimenti per irrazionale vittimismo rischiamo di fomentare nuovi mostri, per cui anziché debellare il maschilismo si finisce per parificarlo.

Letture consigliate:
• La libertà inafferrabile: al Kismet ‘La bisbetica domata’ grottesca di Tonio De Nitto, di Nicola Delnero
• La supremazia del maschilismo: all’India il Pirandello di Fogacci e Malosti, di Sarah Curati
• Ritratto doppio di rivoluzionaria: le donne ribelli di Animanera e Bonaiuto, di Giulio Sonno

Ascolto consigliato

Teatro Vascello, Roma – 15 marzo 2016

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