La ricerca della felicità nel senso di colpa occidentale
Arcuri porta in scena il Candide di Ravenhill
Grotowski scriveva, già precorrendo i tempi, che viviamo in una società che ha scambiato la felicità con il piacere. Se la felicità implica un pensiero, richiede sacrificio e pazienza, il piacere, dal canto suo, è irrazionale, non ammette mediazioni o impegno. Al giorno d’oggi, si fa davvero fatica ad accettare qualcosa che non ci sia dato immediatamente e senza sforzo: ma a quali conseguenze può arrivare una società che persegue il piacere a scapito della felicità e che cerca di negare tutti i propri aspetti più critici e dolorosi? È proprio questo che sembra chiedersi Mark Ravenhill in Candide, nuova produzione del Teatro di Roma, in scena all’Argentina per la regia di Fabrizio Arcuri (traduzione a cura di Pieraldo Girotto). Non proprio una riscrittura del racconto più famoso di Voltaire scritto nel 1759 come un’ironica riflessione sul destino umano e la felicità, atto a confutare le tesi ottimistiche dell’epoca quanto l’arma contundente utilizzata per fare a brandelli passato, presente e futuro.
Sono infatti due i filoni narrativi che s’intrecciano nelle cinque grandi scene ambientate in epoche diverse, come dei possibili scenari leibnitziani in cui il pubblico può scegliere, ovviamente, quello peggiore. Da un lato c’è quindi la storia di Candide; dall’altro i giorni nostri, in cui il protagonista non appare più in carne e ossa ma nello spirito ottimistico dei tempi, che si scontra testardamente con il pessimismo dei fatti.
Si inizia allora in Westfalia, nel 1755: Candide (Filippo Nigro) è alla ricerca della sua bella Cunegonde (Federica Zacchia). L’ambientazione e i costumi settecenteschi (Arcuri) non devono però trarre in inganno quanto a naturalismo: le avventure del protagonista saranno messe in scena da un gruppo di attori attraverso un play within the play dagli echi brechtiani e pirandelliani. La dialettica tra attore e personaggio, che innerva da sempre la ricerca teatrale portata avanti da Arcuri, sembra così il pretesto per indagare il sintomo di una dissociazione della personalità tutta contemporanea, quella fra l’io agito e l’io percepito dagli altri, come se i personaggi fossero affetti da una sindrome da social network ante-litteram.
Cambio repentino del tempo: anni 2000, lo scheletro di un hotel ingabbia la desolante festa di compleanno di Sophie, 18 anni, che proprio in quel giorno sterminerà tutta la sua famiglia, rea di aver lasciato il pianeta al disastro ambientale; solo Sarah (Francesca Mazza), la madre, si salverà. Ravenhill punta così la pistola sul senso di colpa occidentale, rimosso attraverso bislacche teorie ottimistiche new age ma che pur torna, con tutta la forza della negazione, personificato nella distruzione del pianeta, di cui l’uomo è artefice.
Da una casa di produzione in stile minimal a un Eldorado banale e conformista, le scene si susseguono tra scenografie mobili (Andrea Simonetti), incursioni del violino suonato dal vivo da H.E.R. e inserti video realizzati da Luca Brinchi e Daniele Spanò. La regia di Arcuri è un congegno sempre accattivante, ben visibile e lucidamente spietato che si avvale di un cast di attori di alto livello in cui le urgenze autoriali di Ravenhill, tradotte in una scrittura a tratti riuscita a tratti più artificiosa, sono incardinate all’interno di una cornice politica di più ampio respiro che arriva ad avvolgere il concetto di Europa intera, in un continuo rimando di letture e suggestioni al limite del “contenibile” per uno spettacolo teatrale ma che trova pur sempre un delicato equilibrio in bilico fra le esigenze registiche e quelle drammaturgiche.
L’allegoria dell’Europa è Cunegonde, ritrovata finalmente da Candide nell’ultima scena ambientata in un futuro imprecisato. Avvolta nella sua bandiera, terribilmente invecchiata, quattrocento anni di Storia e di rovine sulle sue spalle impossibile qui non pensare a Benjamin Cunegonde chiede disperatamente un bacio a Candide; ecco che allora la riconciliazione metaforica fra l’Europa e la sua parte più ottimistica assume la valenza di una speranza, tanto più in un periodo di forte disgregamento qual è il nostro, in cui l’Europa sembra davvero aver smarrito la sua essenza più umanitaria.
Puntuale oggetto di sarcasmo, l’ottimismo del Candide non è che di facciata poiché Ravenhill delinea un mondo senza speranze, dominato da una violenza che sembra essere l’unico antidoto alla perdita di qualsiasi valore, da un solipsismo sterile, da un consumismo sentimentale e materiale in cui anche il dolore diventa mercificabile (nella terza scena, Sarah sarà intenta a scrivere una sceneggiatura a partire dalla strage della figlia) ferite ancora pulsanti della cultura occidentale in cui Ravenhill scava impietosamente.
Come evitare di piombare nel futuro del quinto quadro, in cui il dovere dell’ottimismo porterà a una società inebetita a scambiare il piacere del successo, dell’egoismo, del consumismo con la felicità e la felicità con l’assenza di conflitto, di dolore? sembra quasi, per riprendere le parole di Grotowski, chiedersi e chiederci il drammaturgo inglese. Come andare avanti, da qui, ora?
Per saperne di più di Fabrizio Arcuri:
• Nostalgia di Futuro, o la riconquista del presente – Fabrizio Arcuri/Short Theatre 10, di Giulio Sonno
• Sweet Home Europa – Fabrizio Arcuri/Davide Carnevali, di Giulio Sonno
• Ritratto di una Capitale – Fabrizio Arcuri/Antonio Calbi, di Giulio Sonno
• Io Calibano – Fabrizio Arcuri/Tim Crouch, di Daniel Montigiani
• Io Cinna – Fabrizio Arcuri/Tim Crouch, di Daniel Montigiani
• Insulti al Pubblico – Fabrizio Arcuri/Peter Handke, di Giulio Sonno
Ascolto consigliato
Teatro Argentina, Roma – 4 marzo 2016