Un weekend a Torpignattara
La resilienza virtuosa del Teatro Studio Uno
Se c’è un aspetto che caratterizza Roma è certamente la schizofrenia: tanto nell’amministrazione capitolina quanto nel panorama teatrale vige un misto di anarchia e buonsenso che anche quando la macchina sembra arrancare pur la sospinge innanzi. Specchio riflesso di questo XXI secolo non solo italiano così pavido di emancipazione temporale, Roma alla fine tira sempre avanti, perché nessuno le ha mai insegnato a morire.
Cinica, sardonica, sprezzante, in un modo o nell’altro l’Urbe sa anche sorprendere, soprattutto quando tocca il fondo. Così, mentre il Teatro di Roma e il Vascello si sfidano tacitamente alla stagione più prestigiosa (o riuscita), in periferia c’è chi porta avanti la propria buona pratica di resilienza: è il caso dello Studio Uno.
E teatro off lo è davvero, ma non perché sia così periferico (bastano poche fermate da Porta Maggiore), piuttosto perché fa ciò che dovrebbe fare un teatro indipendente: ospita giovani talenti, propone compagnie ancora poco note, offre insomma spazio a teatranti magari non sempre artisticamente maturi però potenzialmente interessanti che si dedicano all’arte scenica con una creatività e una preziosa umiltà spesso assopite nei teatri sparsi lungo le sponde del Tevere. Allo spartano ma accogliente foyer romano, infatti, raramente troverete intellettuali spiantati, radical chic, aficionados dei centri sociali o signore in pelliccia: gli spettatori dello Studio Uno appaiono semmai come “semplici” curiosi, che scendono le scale di via Carlo della Rocca, sbucciano qualche mandarancio, aprono una noce, sfumacchiano nella loggia interna e poi entrano a vedere uno spettacolo: stretti stretti, sulle panche o sulle sedie in plastica, di fronte all’arco a tutto sesto dei piccoli boccascena. Finalmente, un pubblico.
Lo scorso fine settimana, mentre in centro furoreggiavano le platee di artisti affermati come Latella, Latini, Paiato e Scommegna animando il solito teatrino piccoloborghese degli schieramenti , le due sale di Torpignattara hanno accolto invece gli spettacoli delle poco più che trentenni Lisa Rosamilia e Caterina Gramaglia. Il primo, Chorisia,della compagnia di teatrodanza Matroos (distintasi la scorsa estate al Roma Fringe Festival con Cute) si articola lungo tre coordinate: il movimento del corpo, il suo ostacolo concreto, il suo fremito. Vediamo così Rosamilia rifugiarsi tra porte e stoffe in una costante oscillazione tra l’esposizione al mondo esterno e l’immediata contrazione su di sé, mentre l’ambiente sonoro creato sul momento da Giada Bernardini riecheggia lo scricchiolio interiore (“Chorisia” è il nome di un albero tropicale, dal tronco cosparso di spine). Manca forse un elemento di attrazione, quasi che lo stato d’animo espresso dallo spettacolo prevaricasse la composizione stessa: lo sviluppo è lambiccato, c’è un tale indugio nella costruzione dei singoli quadri coreografici che la pur forte valenza fisico-simbolico-emotiva finisce ogni volta per stemperarsi. Pur tuttavia, la compostezza formale dello spettacolo evoca con incisività una dimensione di castigo, di emancipazione mortificata, di sessualità repressa: tutto è secco, liso, arido, abbandonato, persino la pioggia è solo un’illusione sonora quasi contemplassimo, dall’interno, la fortezza di una donna violata che, invano, tenta di uscire.
Dopo il debutto di Cabala a fine gennaio, Caterina Gramaglia invece conclude la propria permanenza allo Studio Uno con una versione ridotta degli altri due spettacoli che compongono La trilogia della Memoria (il nostro sguardo su questi frammenti, dunque, sarà inevitabilmente parziale). Se Le lacrime di Giulietta omaggio a G. Masina scivola spesso in rievocazioni che per quanto toccanti tradiscono una certa esiguità compositiva, non riuscendo mai a superare il tributo sentito (seppur onesto); White Room, ancor di più frastagliato, colpisce tuttavia per la ricercata ironia. Gramaglia è senza dubbio un’attrice singolare, felicemente distante dai manierismi di tante troppe colleghe: nel pieno dell’acme comico riesce a sfoderare un’imprevista finezza drammatica che lascia di sasso; eppure in questa carta bianca scenica l’artista toscana fa un passo in più: crea demolendo, con un’innocente spietatezza che nei suoi momenti più brillanti sembra quasi un esilarante concentrato di Antonio Rezza e Anna Marchesini. Gramaglia paròdia costumi, tic generazionali, format televisivi, molto teatro moltissime tare teatrali , ma lo fa con una leggerezza tutta femminile che da noi è poco diffusa, o perlomeno che ultimamente non si vede più (si pensi a Franca Valeri, Bice Valori, Sandra Mondaini). Un umorismo che non punta tanto alla battuta pungente, alla stoccata salace, ma che colpisce quasi con sbadataggine, come se senza volerlo desse del ridicolo a qualcuno dicendo con candore la piana e innocua verità. Una controironia, insomma, che sbeffeggia la realtà senza troppi artifici, anzi semplicemente mostrandola per ciò che è: un’esilarante assurdità.
Si respira, dunque, un’aria diversa allo Studio Uno: se non rivoluzionaria o anticonvenzionale sicuramente altra, stimolante, lontana da schieramenti, elitarismi o pietismi sinistroidi. Una realtà, quella diretta da Eleonora Turco e Alessandro Di Somma, chesi dimostra in grado di intercettare i gusti più disparati, riuscendo a incuriosire chi di teatro contemporaneo indipendente non si interessa o, molto più probabilmente, non ne sospetta neanche l’esistenza.
A proposito di Teatro Studio Uno:
Tra dolore e misticismo, i frammenti della Cabala di Caterina Gramaglia, di Elena Cirioni
L’ipocrisia tra curva e tribuna: Giustinelli tenta il ritratto dell’Ultràs in ‘Fuckin’ Idiot’, di Adriano Sgobba
Il teatro ritrovato, o dell’ironia del Nano Egidio: la lezione di ‘Batman Blues’, di Giulio Sonno
La Banalità del Male in ‘E C H O E S’ di Patti e De Liberato, di Sarah Curati
Augenblick o la trappola della libertà – Amaranta Teatro|Orma Fluens, di Giulio Sonno
Ascolto consigliato
Teatro Studio Uno, Roma – 5 e 7 febbraio 2016
In apertura: ©Paul Klee Strada principale e strade secondarie, particolare