LORNE, AUSTRALIA - DECEMBER 31:  Caleb Followill  of US band Kings of Leon performs on stage during The Falls Festival on December 31, 2007 in Lorne, Australia.  (Photo by Kristian Dowling/Getty Images)

Kings Of Leon @ Futurshow Station (BO)

Metti una notte al gelo di Bologna, in quello che una volta si chiama Palamalaguti e adesso, più adatto agli inglesismi dei tempi contemporanei, si chiama Futurshow Station. Unica data italiana di quella che alcuni potrebbero considerare, non a torto, la migliore rock band al mondo, oggi, nel 2010: Kings Of Leon, from Tennessee, giunti fino alle nebbie della A14 per presentare al nostro Paese la loro ultima fatica, “Come Around Sundown”, l’album più velocemente venduto in UK nella prima settimana d’uscita in questo anno 2010, ottimo seguito dell’entusiasmante “Only By The Night”, con buona pace dei puristi dell’indie.

Lo show è aperto da un terzetto di esaltati, i The Whigs, capitanati da un baldo esibizionista dal ciuffo improponibile, al quale viene sparato un getto di ventilatore sul viso per tenere su il suddetto ciuffo, e che si muove tarantolato manco stesse suonando “Star Spangled Banner” coi denti a Woodstock finendo per farsi male di brutto al termine del set, quando capitombola ridicolmente al termine dell’ennesimo salto carpiato immotivato, schiacciato dalla sua stessa chitarra. Giusta punizione per il frontman di una band che, dopo un discreto inizio di performance, si perde cercando sé stessa a metà strada fra una cover band dei White Stripes e una dei Wolfmother, non trovandosi più.

Cambio di palco ed eccoli, i KOL. Prime impressioni: Nathan, il batterista, è più grosso dal vivo di quanto si possa immaginare. Il suo poderoso bicipite è visibile a occhio nudo anche a distanza considerevole, e la potenza della sua struttura fisica è udibile dalla violenza con cui percuote le pelli della sua batteria, come in Use Somebody o Closer (con leccata di chitarra di Matt), probabilmente le migliori e più suggestive esibizioni del set, a parere di chi scrive. Qualche metro più avanzato nella disposizione sul palco, Caleb inchioda la sua voce para-divina incantando l’audience: come direbbero gli inglesi, “at his live best”.

Non sono certo famosi per i fronzoli, i nostri: e anche in questa occasione confermano la loro propensione a suonare e basta (che non è un male) senza concedere nulla o quasi a spettacolo altro dalla musica. Nemmeno i problemi tecnici – che paralizzano l’audience durante l’esecuzione di Mary inchiodando sui tecnici del suono (complimenti a loro per il self controbb3

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