Sognando l’Olocausto
Guy Cassiers dà vita a 'Le benevole' di Littell
Nel suo saggio Anatomia della distruttività umana, Erich Fromm studia la tortura, il sadismo, la necrofilia, la guerra, la volontà di sottomettere; caratteristiche esclusivamente tipiche del genere umano, analizzate sotto la lente della psicoanalisi. Ad esempio, di quest’attitudine alla violenza, Fromm prende i profili di due personaggi storici: Hitler e Stalin. Ma senza i volontari del nazionalsocialismo e del socialismo, senza le folle delle adunate di Berlino e Mosca, senza i macchinisti dei treni che portarono milioni di persone verso lo sterminio, i due dittatori avrebbero avuto la stessa forza? Fromm ne deduce che il vero pericolo per l’umanità, la vera forza distruttrice risiede non nei simboli del male, ma nella gente comune. Il pericolo reale siamo noi.
Questa è la frase che il Generale delle SS Maximilien Aue (Hans Kesting) pronuncia di fronte al pubblico, sul proscenio del palco del Teatro Argentina con le luci di sala ancora accese. È l’inizio di The Kindly Ones l’ultimo spettacolo del regista belga Guy Cassiers, tratto dal romanzo di Jonathan Littell, Le benevole. Max Aue è riuscito a fuggire dopo la disfatta del Reich, vive una vita normale, nessuno sa chi era, è tornato ad essere un uomo qualunque, ma dentro di sé porta gli incubi del male e della distruzione.
Lo spettacolo è il racconto onirico della realtà di un inconscio corrotto dall’orrore e di una coscienza costretta per senso del dovere o per codardia a far parte della follia lucida della soluzione finale. In questo racconto di allucinazioni e orrori non c’è spazio per il realismo, i personaggi in questa maniera diventano simboli grotteschi del potere, squallide pedine messe su una scacchiera per cercare di vincere una guerra oramai persa. Il nichilismo serpeggia sulla scena tra i disegni di luce (Bas Devos) e i dialoghi rozzi, volgari degli ufficiali delle SS, costruiti su una regia precisa e rigorosa che riflette la meccanica perfetta dell’organizzazione dell’olocausto.
La scena è incentrata su un minimalismo tetro che ha come unico oggetto scenografico una grossa parete composta da cassette da archivio arrugginite che battono i loro sportelli sulla coscienza di Max senza dargli tregua. Il proscenio diventa lo spazio per la realtà che prende vita su panelli video (Frederik Jassogne) sotto forma di incubi fatti di feci e sangue. La storia è irrealtà, il sogno diventa realtà e agghiacciante comprensione dell’orrore. Tra questi due mondi a fare da collante arriva un personaggio che si pone al di sopra della storia, un giovane ebreo condannato a essere giustiziato che porta con se la consapevolezza della fine, la cultura del popolo ebraico e una stoica e sconcertante indifferenza verso la morte: quasi un deus ex machina che appare per far scomparire le nebbie dell’allucinazione e svelare finalmente la vera natura dell’orrore.
Max comprende il significato della sua venuta e volta le spalle alla dea che ha sedotto i suoi commilitoni: Endlösung, “soluzione finale” in tedesco.
Max è il colpevole, l’assassino e il crudele carnefice, ma è anche colto, intelligente dotato di una sensibilità elegante. Lui è come noi, nasconde il sangue nei meandri oscuri della sua mente e vive una vita normale. In questo periodo storico dove il nazionalismo, il razzismo e la xenofobia influenzano sempre di più la politica europea, potrebbe ricomparire come uno spettro malvagio portatore di incubi e orrori, nascosti sotto la faccia di una persona qualunque.