Parlare per non dire
Rustioni, Veronese e le ‘Donne che sognarono cavalli’
Si rimane un po’ asfissiati, intontiti e smarriti rigorosamente in ordine cronologico durante la visione di Donne che sognarono cavalli, testo di una delle personalità di spicco del teatro argentino contemporaneo, Daniel Veronese, adattato da Roberto Rustioni. Infatti, il clima di intimità instaurato dalla vicinanza tra pubblico e scena, l’ordine cronologico non lineare e la costruzione del racconto per certi versi anomalo, sono fattori che conducono lo spettatore nelle fasi umorali sopraccitate. Ma andiamo per ordine, perché almeno di primo acchito lo scenario sembrava differente.
Gli attori attendono già in sala che il pubblico occupi i propri posti proprio a ridosso di una scena compressa, claustrofobica, composta di pareti ricoperte da fogli di giornale e tubi gialli, un divano, un armadietto e un tavolo. Occhiate, sguardi spaesati e qualche sorriso accompagnano l’attesa; poi tutti a tavola per una comunissima cena famigliare in uno scenario che ricorda le sit-com americane: si ride, si parla e si beve del vino, tralasciando tutti i problemi che attanagliano questi tre fratelli e le loro rispettive compagne. Ben presto, però, l’atmosfera leggera riserverà spiacevoli colpi di scena.
Nei cinque quadri che compongono l’opera scardinati e restituiti con l’ordine 3-1-2-4-5 i personaggi, apparentemente sicuri e a tratti spavaldi, si scopriranno più fragili del previsto; mentre tutti i legami famigliari, tenuti in vita nel corso degli anni da questi abili equilibristi, si sgretoleranno. Mali incurabili, inconfessabili segreti, scomode verità si intrecceranno a sinistre storie di cavalli che per varie ragioni scandiscono le fasi di un’esistenza edificata su delicate maschere, create per affrontare la dura realtà; e su castelli innalzati in aria, spazzati via da confessioni faticosamente emerse.
Uno studio introspettivo sul personaggio e sulle sue relazioni che tanto deve all’insegnamento di Čechov, come d’altronde la volontà di raccontare una storia senza raccontarla, facendola bensì emergere e intuire lentamente dalla mente dello spettatore senza nette esplicitazioni. Operazioni, queste, ben note a un regista come Rustioni che, come possiamo intuire dalle sue ultime produzioni, pare particolarmente legato al drammaturgo russo.
Se Čechov quindi è la base, la messinscena, esuberante ed eccessivamente verbosa, pare creare qualche sfasatura a livello ritmico. I lunghi e spesso volutamente inconcludenti dialoghi, infatti, sono spesso interrotti da accessi d’ira, diatribe e momenti d’isolamento in cui Lucera, la più giovane del gruppo, ripercorre la propria storia che va ad allacciarsi in sordina con la grande Storia, quella della dittatura militare argentina. Una serie di variazioni repentine che, unito all’ordine cronologico scomposto, non possono non creare quel senso d’intontimento di cui si parlava nelle primissime battute.
Rustioni/Veronese, dunque, ritraggono una civiltà estremamente vicina alla nostra, ossia quella in cui si parla molto ma non si dice (quasi) mai niente, e in cui si cerca di ingannare il tempo nascondendo segreti che spesso si ritorcono contro i propri custodi. Ma alla fine, volenti o nolenti, tutto è destinato a emergere, e a quel punto non resta che rimanere smarriti, come nel tragico epilogo di questo spettacolo.
Villa Dolorosa. Tre compleanni falliti – Roberto Rustioni, di Nicola Delnero
Tre atti unici da Anton Čechov – Roberto Rustioni, di Giacomo Lamborizio
Ascolto consigliato
Inequilibrio, Castello Pasquini, Castiglioncello – 8 luglio 2016