Il dolore all’improvviso
Vergognoso e straziante 'Bastard Sunday' di Cosimi
C’è un dolore che le parole non possono esprimere. Che solo il corpo può. Ma il corpo ha una dignità che neanche la mente conosce: non dice: soffre, assorbe, trattiene: implora muto di essere liberato. Basterebbero queste poche parole, scomposte, a restituire l‘intensità trattenuta di Bastard Sunday; ma qualcosa deve pur seguire, perché qualcosa pur sempre segue al dolore, e forse non deve essere il silenzio.
Proviamo allora, intanto, a scrollarci di dosso ogni tara culturale. Lasciamo stare Enzo Cosimi, lasciamo stare la danza, lasciamo stare Pasolini. Torniamo al corpo, al suo indicibile. Perché al di là dei nostri stessi condizionamenti, sulla scena troviamo tutti i segni di un dolore universale—basta rispondere loro con complicità.
Dopotutto, che cos’è il dolore? Uno strappo, una lacerazione, qualcosa che prima era integro e che poi si è infranto e che anche a ricucirlo non sarà più lo stesso (questa l’etimologia, dal sanscrito; cfr. l’ingl «to tear»). E questo ci mostra Cosimi: l’innocenza che si corrompe. Pablo Tapia Leyton è un “uomo nero”, un bogeyman, un boia erculeo senza volto che penetra oltre la carne e se ne rimane lì, fermo (quasi tutto il tempo) come una presenza inesorcizzabile. Paola Lattanzi invece è la semplicità di un ragazzo di strada che gioca con un pallone, un adolescente che presto, troppo presto diventerà ragazzo di vita, che si corromperà, che si frantumerà interiormente.
Così, pezzo a pezzo, il corpo di Lattanzi sarà denudato davanti ai nostri occhi, alla vile luce privata di lampadina (luci Gianni Staropoli): ogni capo strappato una porzione di sé perduta, una mutilazione del corpo. Rialzarsi, risollevarsi dallo sporco si fa sempre più difficile: lo sguardo si solleva in avanti, senza speranza, alienato, svuotato come quello di una bambola che serve solo al sollazzo altrui. Ed ecco che il corpo nudo diventa imbarazzante, il sesso esposto qualcosa di vergognoso: è solo un oggetto ormai, una gabbia di pelle in cui il prigioniero sta poco a poco morendo.
Quando il carnefice si riavvicina tentando di rialzarlo, quasi con colpa, ecco che Cosimi sembra scolpire in pochi secondi una via crucis di rapidi quadri dall’eco sacra e profana: sulle note di quella stessa Passione secondo Matteo di Bach tanto cara a Pasolini paiono riaffiorare nella carne i Prigioni di Michelangelo, la Pietà, il San Pietro crocefisso di Caravaggio, e addirittura una rivisitazione blasfema dell’Amore e Psiche di Canova.
Giusto il tempo di illuderci che sia una solo storia lontana o inventata – una finzione –, che ecco che al ritmo di canti africani (musica originale Robert Lippok) il corpo viene ora tinto di terra bruciata e posato su un paio di tacchi: dalle marchette romane del Dopoguerra al mercato di migranti, insomma, la storia dello svilimento e dello sfruttamento dei corpi continua.
Finalmente Pasolini ritorna a essere un’ispirazione—non un mito da adorare. E Cosimi ne filtra la lezione innanzitutto umana e ce la restituisce in tutta la sua complessità: non è un omaggio questo, né una coreografia, nemmeno una danza, è una narrazione emotiva (ma non sentimentale) del corpo con il corpo. C’è qualche lungaggine? Sì, forse, ma è un dato più che trascurabile, perché Bastard Sunday è struggente. Lo è in tutto ciò che non dice. Lo è nel corpo dolorosamente penoso di (un’immensa) Lattanzi. Lo è nella sua spossante freddezza. Perché Cosimi non sembra chiederci le ragioni di questo dolore, né pretende di farcene sentire la colpa, ce lo mostra orribile e repellente com’è. E noi non possiamo fare altro che guardarlo, disgustati, disgustati e impotenti.
Oh shame, swallow me now.
—Antony and the Johnsons Her eyes are underneath the ground
Questa è arte.
Ascolto consigliato
Teatro India, Roma – 18 dicembre 2015