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Suffragette – Sarah Gavron

Londra, inizio del Ventesimo secolo. Maud Watts ha 24 anni, un marito e un figlio, lavora da quando è bambina in una lavanderia dove le donne, sfruttate e maltrattate, devono lavorare in pessime condizione igieniche. Come se ciò non bastasse devono anche assistere e subire in silenzio i giornalieri controlli e le incessanti molestie del loro datore di lavoro. Dopo alcune esitazioni Maud, spinta dalla collega Violet, si unisce a un gruppo di lavoratrici ribelli, seguaci di Emmeline Punkhurst, fondatrice del WSPU (Women’s Social and Political Union). Da questo momento la vita di Maud cambierà radicalmente.

Suffragette è esattamente come ce lo si aspetta: corretto, lineare, piatto, a tratti noioso. Sarah Gavron ci propone un lungometraggio più vicino ai period drama della BBC che a un film da festival o – come era stato predetto da molti – da grandi premi. Ogni tassello del puzzle occupa il suo posto e non tenta in alcun modo di sovvertire l’ordine monotono e naturale di un’architettura vista e rivista. La sceneggiatrice Abi Morgan regala, parsimoniosamente, qualche frase a effetto nei punti che possiamo generosamente definire salienti (discorso di Emmeline Pankhurst, lettera di Maud) con il solo scopo di toccare lo spettatore più sensibile o dalla lacrima facile.

suffragette poster

Se nell’ambientazioni e nella vicenda è facile rintracciare echi dickensiani, non è purtroppo possibile fare un discorso affine per quanto riguarda i personaggi: per quanto Maud ricopra il ruolo di protagonista, e per quanto il suo personaggio sia quello maggiormente caratterizzato, viene spontaneo pensare che buona parte del lavoro sia stato fatto dalla, ancora una volta, intensa Carey Mulligan, capace di colorare un personaggio che da sceneggiatura appare sbiadito. Le suffragette compagne di avventura di Maud – interpretate da Helena Bonham Carter e Anne Marie Duff – mantengono la loro bidimensionalità di personaggi di contorno per tutta la durata del film.. Come se ciò non bastasse la scelta che maggiormente lascia dubbiosi è quella relativa al ruolo di Pankhust. La sempre suprema Meryl Streep, a cui questa volta viene assegnata una parte insignificante – è infatti la fama portata dal nome del personaggio che interpreta ad avere la meglio sulle scarne e retoriche battute che le sono state affidate – non brilla, anzi viene quasi penalizzata da un accento inglese che non le appartiene e da un inserimento nella vicenda forzato, se non del tutto inutile.

Alla conclusione di Suffragette, davanti a un evidente senso di insoddisfazione e a una eccessiva percezione di retoricità, resta come unica consolazione la consapevolezza del talento e della continua e strabiliante crescita artistica dell’ingannevolmente insipida Carey Mulligan.

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