Carmen che non vede l’ora, o il diritto alla rivolta – Bartolini/Baronio
Chi è l’intruso nella società? Per anni sui banchi di scuola ci hanno insegnato che la civiltà è nata quando l’uomo ha smesso di vivere di caccia e all’improvviso si è insediato in un territorio: dal nomadismo alla stanzialità. Ma per quanto parzialmente veritiera, un’idea del genere è tagliata con l’accetta; a essere precisi, con l’accetta del postero “moderno” che considera il proprio stile di vita come l’apice evoluzionistico del passato. In realtà, nomadismo e stanzialità hanno sempre convissuto, solo che poco a poco il primo ha cominciato a rappresentare una minaccia per l’autoaffermazione della seconda.
Ora, cosa c’entra tutto questo con uno spettacolo di Bartolini/Baronio ispirato alla vita di una donna napoletana conosciuta durante i loro laboratori? C’entra, perché caso vuole che questa donna si chiami Carmen, e che abbia sangue zingaro, e che sia una ribelle indomita in una società prepotentemente maschilista; già, proprio come la celebre Carmen di Bizet e Merimée. Fortuita o meno che sia, la contiguità ci porta subito a riflettere su una questione fondamentale: il nomade non è un retrogrado della scala socio-evolutiva è un outsider, un anticonformista, qualcuno che nella società non si riconosce e preferisce spostarsi altrove.
Che la Carmen di Tamara Bartolini e Michele Baronio (produzione 369 gradi) esista davvero d’altronde è poco importante, la sua immagine si può confondere con la nostra si deve , perché il ritratto è sempre lo stesso: è “l’altro”, tutto sta ad accoglierlo. Così la formula magica che trasformerà questa storia in teatro non potrà che essere quella infantile per eccellenza: “Facciamo che io sono ”. Fantasia e introspezione.
A B/B non interessa infatti comporre la forma perfetta, sulla scena deve emergere un’immagine, non precisa ma diffusa. Saranno allora le foto, le canzoni, i sapori meridionali, le sbucciature, il ruvido, la semplicità a evocare una vita, perché questa storia “imperfetta” e non troppo straordinaria sia attraversata da tutti, istintivamente, quasi si trattasse di un proprio ricordo famigliare.
Ecco, il teatro di B/B ci trasporta proprio dalla familiaritá alla famigliarità, dal “sapere che qualcosa esiste” al “toccarlo con mano”, a sporcarsi con tutte le sue dolci asperità (la vitalità di Bartolini è come sempre vibrante, ma chissà che a operare per sottrazione, per silenzi, per privazioni, lo spettacolo non guadagni in compenetrazione, proprio come il toccante e minimalista carosello finale, metafora stessa della vita). La famigliarità infatti è il luogo per eccellenza della sensibilità, del compromesso, della normalità, del dolore irrisolto. È quella stessa stanzialità che ci assorbe completamente e che poi ci spinge al nomadismo, al naufragio dell’illusione, alla separazione dolorosa: dolorosa perché necessaria per conquistare consapevolezza di sé.
Facciamo allora che la felicità non è la meta ma la spinta.
Facciamo che il dolore non è una condanna ma un risveglio.
Facciamo che l’evasione non è una resa ma un principio.
Facciamo che noi siamo l’altro, anche l’altro, e che siamo la sua felicità, il suo dolore, la sua evasione.
Ascolto consigliato
Carrozzerie n.o.t, Roma – 8 ottobre 2015