Italian Gangsters -Renato De Maria
Lo scorso anno a Venezia con La vita oscena Renato De Maria aveva stupito – nel bene e nel male – i più per le sequenze “ostinatamente” surreali attraverso le quali si manifestava e divincolava la sofferenza del suo giovane protagonista.
Questa volta, invece, con Italian gangsters il regista, tornato al Lido nuovamente nella sezione Orizzonti, sorprende a modo suo per il brusco cambio di storia, contenuti e registro rispetto alla sua precedente pellicola. Niente più intimismo o ripiegamenti nella disperazione più riflessiva, bensì riflettori puntati su Enzo Barbieri, Paolo Casaroli, Pietro Cavallero, Luciano De Maria, Luciano Lutring, Horst Fantazzini, personalità un tempo celebri della criminalità italiana dal periodo postbellico ai primi anni Settanta, qui interpretate efficacemente da attori non molto noti ma del tutto credibili, i cui discorsi e pensieri sono ripresi direttamente da interviste che i veri “banditi” hanno rilasciato a celebri giornalisti come Biagi e Montanelli.
Il registro scelto è tutt’altro che onirico, bensì scarno e diretto. Ciò non significa tuttavia che ci si trovi di fronte a un’opera realistica. Per quanto, infatti, qui si faccia uso di immagini e fotografie che comprendono anche i volti dei criminali, di prime pagine di importanti quotidiani dagli anni Cinquanta ai Settanta, di filmati autentici (come la stazione di Bologna quasi del tutto rasa al suolo dopo la Seconda guerra mondiale), di brevi spezzoni di film sulla criminalità italiana (da ricordare su tutti Milano calibro 9 di Fernando Di Leo e Cani arrabbiati di Mario Bava) è brechtiana – e anche astratta, se vogliamo – l’aria che si respira nelle inquadrature in cui, davanti a uno sfondo nero e silenzioso, si stagliano uno per uno in primo piano i sei criminali che raccontano la loro storia rivolgendosi direttamente alla macchina da presa, partendo dalle “origini” e motivazioni delle loro scelte estreme, per poi proseguire con i punti salienti della loro “carriere” (compresi alcuni aneddoti ironici e gustosamente imbarazzanti sulle rapine, che quasi fanno scordare la drammaticità degli eventi), arrivando infine all’arresto e alla ricostruzione di una nuova, diversissima vita dopo anni selvaggi.
I loro volti, illuminati da una luce proveniente da fuori campo, sono un incrocio fra indifferenza e sfacciataggine, con un tocco di divismo che illumina con bagliore insolente l’oscurità da cui sono circondati, conferendole una certa, sinistra dignità. De Maria è però abbastanza fine e saggiamente puntiglioso da andare oltre la minacciosità ammiccante dei loro sguardi, mettendo almeno in parte in un angolo la loro luce deleteria per indagare le possibili cause delle loro azioni, riuscendo a tratti a far emergere dalle loro affermazioni un’aura di vaga “tenerezza”.
Se dunque i sei “protagonisti” ammettono effettivamente di amare quello che facevano e di essersi dati alla bella vita, scopriamo che, spesso, l’origine delle loro (esecrabili) azioni risiede nella gravità dei problemi economici sorti nella Milano del dopoguerra, e in una conseguente “mitizzazione” da ragazzini dei fascisti e dei partigiani. La loro, perciò, è anche una reazione storta, sanguinaria e fin troppo anarchica alle organizzatissime storture e velate schifezze dello Stato.
Del resto, come dice provocatoriamente Brecht – qui citato da uno dei banditi – a volte “è più criminale fondare una banca che derubarla”.