Sono la vagina di Tyler
Comunque, menate a parte, hai iniziato a leggere Fight Club. Hai iniziato a leggerlo ieri, in treno, mentre rientravi dal tuo weekend in Toscana, a seguito di un riuscito tentativo di evasione dall’opprimente afa milanese. Avevi in borsa anche Sottocultura, un libro di sociologia che ti ha prestato Amnesia circa un anno fa per il benessere dei vostri averi: non prestatemeli…MAI! – che avevi deciso di portare in viaggio perché tu ami la sociologia e, non meno importante, perché ai tempi dell’università nessuno poteva scatenarti un attacco di narcolessia (sempre auspicabile quando si viaggia sul più merdoso bolide di trenitalia) come Foucault o De Bourdieu.
Ma ecco che lì, sulla mensola della Metà di Melinda, proprio mentre sei disperata all’idea di dover affrontare il viaggio di ritorno, dopo un weekend infarcito di ambigui atteggiamenti iper-glicemici, di frescura artificiale, di cenetta al ristorante a base di pesce e vino bianco, di film visti accoccolati, di sole, di mare, di sigarette fumate sul balcone, proprio mentre stai per piangere all’idea di dover viaggiare di nuovo su un regionale senza aria condizionata, ecco che adocchi sulla mensola Fight Club. E’ stata un’indicibile sorpresa, soprattutto perché sapevi benissimo che la Metà di Melinda aveva quel libro, eppure nulla può spiegare la sensazione di rivelazione che hai sentito in quell’istante.
E così, in treno, hai letto. Hai letto le prime 70 pagine di Fight Club. Le hai lette chiedendoti come sarebbe stato leggerle se non avessi già visto il film ma, dopotutto, a te non spiace mica l’idea di portarti in borsa Edward Norton. Hai letto le prime 70 pagine, ci hai dormito su e stamattina, in tram, tra putrescenti passeggeri debilitati dalla calura e sbadigli intontiti di apatia, l’hai afferrato e ne hai letta qualche altra pagina. Tre, quattro pagine. Forse cinque. E hai subìto un’illuminazione. Non potrà che essere il tuo quotidiano rituale per affrontare la giornata: leggere Fight Club mentre vai a lavoro. Per caricarti, per incattivirti, per alimentare il tuo odio di classe, ma anche per capire che, in realtà, niente di ciò che popola le nostre giornate merita l’inquietudine che spesso gli riserviamo. Ed ecco che tutto sembra, attraverso l’estremizzazione del romanzo, perfettamente sensato e maledettamente vero. E’ lo spirito della nostra generazione, cresciuta nella morsa tra il consumismo massificato e le aspirazioni generazionali indotte, i mobili dell’Ikea e i padri che non hanno fatto l’università e ciò ha reso essenziale che noi ci laureassimo. Per non parlare del lavoro in Microsoft, un bel lavoro di merda ma il classico posto di cui vantarsi con gli ex compagni di scuola, esemplare siparietto della nostra mediocrità para-borghese, brillantemente snocciolato da Palahniuk.
Riga dopo riga, cresce la sensazione di una vita che si consuma in una totale assenza di vita. La costruzione dei periodi è secca, incalzante, scarna e sovraccarica al tempo stesso, nella scelta chirurgica di una prosa drastica, priva di rallentamenti, potenzialmente esplosiva, che trapassa il flusso di coscienza e diventa torrenziale, nevrotica e insieme lucida. Il tutto punteggiato, qua e là, di un’ironia dissacrante.
Ed ecco sorgere il desiderio di anarchia, tanto nel narratore quanto nel lettore, che si lascia inghiottire da una spinta centripeta all’inquietudine, al tutto per tutto, all’ All In sociale, in cui sia finalmente chiaro che è la convinzione di avere qualcosa da perdere, a lasciar scorrere via la nostra esistenza, come fossimo ammansiti automi panciuti.
Ed ecco sorgere il desiderio di anarchia, la tensione a una sovversione del sistema, alla rivoluzione devastante che non ambisce ad alcun ordine. Ecco finalmente sviscerati i nostri pensieri, messi nero su bianco come nemmeno noi siamo mai riusciti a fare con cotanta virulenza sulle pagine del nostro io. Ecco spogliarsi i nostri alibi, ecco la riduzione al paradosso, al bisogno di sentirsi vivi nel confronto con i malati terminali.
Oppure, ribellarsi.
Oppure, l’anarchia.
Allora oggi, fumando una sigaretta, nella pausa di metà mattinata, hai riflettuto sull’anarchia. E ti sei ricordata di tutta la saccenza con la quale affermavi, intorno ai 16 anni, che l’anarchia era una stronzata. Ma il punto è che, a 16 anni, non ha senso parlare di anarchia. Il punto è che a 16 anni non si capisce un cazzo delle regole e l’anarchia può essere né più né meno che una A scarabocchiata su un diario, oppure una pittoresca scusa per sbattersene di fare i compiti.
Ed eccoti oggi, lì sul balcone, a pensare all’anarchia come una rispettabile conseguenza del capitalismo globalizzato e sconsiderato. Palahniuk coglie tutte queste istanze (e le coglie 14 anni fa, quando coglierle era molto meno ovvio di oggi) traducendole nella sublimazione della post-modernità, nel nichilismo apocalittico, nella rottura totale con il sistema che ci ha generati, nella estrema dichiarazione di guerra alla cosiddetta civiltà, nella rivendicazione dell’esigenza primaria: appartenersi.
Forse l’automiglioramento non è la via. Già, forse è un falso-mito. Ogni epoca ha il suo e questo è il nostro: studiare, lavorare, comprare il divano, anzi, risolvere il problema del divano e dei piatti in vetro soffiato con le bollicine. Ecco, almeno risolvere quello. Poco conta che il nostro io si aggrovigli e svanisca, in una vita indesiderata e francamente indesiderabile.
La sigaretta finisce e tu concludi che l’anarchia non possa che essere una scelta matura, ovvero praticata da chi ha un’età tale per vedere di fronte a sé, con perfetta consapevolezza, l’inutilità del percorso segnato.
A differenza del comunismo, l’anarchia non è un’utopia. L’anarchia è perfettamente realizzabile. Solo che è perfettamente distruttiva. La conseguenza diretta dell’individualismo all’ombra del quale siamo vissuti negli ultimi circa 250 anni ma è, in fin dei conti, l’alternativa più libera.
L’anarchia è perfettamente realizzabile, è perfettamente distruttiva, è la totale dissoluzione dei legami con la cosiddetta evoluzione, nella legittima convinzione che l’evoluzione altro non sia che la seconda faccia della prigionia.
Poi, durante il weekend, hai anche visto un film.
L’hai visto perché venerdì hai fatto colazione con il tuo boss e la bellissima, raffinatissima, altissima AD della tua agenzia super-figa in super-centro a super-milano. Ti sei trovata a fare colazione con loro perché uscivate da una riunione (n.d.a.). Durante la colazione, mentre addentavate una brioche con l’uvetta, l’AD ti racconta di aver visto un film, Amabili Resti e che è un film strano. Voleva sapere cosa ne pensaste tu e il boss, solo che nessuna delle due l’aveva visto. Le chiedi di che parla e ti dice che è inquietante, psicologico e che parla di un serial killer che ammazza le bambine. Il tuo boss, chiaramente, si agita, d’altra parte, una che ha paura dei fulmini e che ha trovato carino Sherlok Holmes, potrà mai reggere un film del genere?
Nel tuo cervello, invece, rintoccano numerosi campanelli, frutto della crescita a base di thriller, fantascienza e horror di cui tuo padre si è debitamente occupato, nelle fase più sensibili del tuo sviluppo cerebrale. Per di più, c’è di mezzo anche la tua insana passione per i serial killer e per le aberrazioni della mente umana, per i coni d’ombra dell’anima, per le incomprensibili degenerazioni che annientano le condivise barriere della cultura e della natura, con una ferocia tale da farci pensare che non si tratti di individui umani, bensì di demoni.
Eviti di condividere con i tuoi capi questo interesse per le menti deviate e per le storie di profondo degrado che quasi sempre le accompagnano e le partoriscono, e associ immediatamente il serial killer del film a Chikatilo. Decidi che nel weekend vedrai il film con la Metà di Melinda.
Bene. L’avete visto. Che dire?
Amabili Resti avrebbe potuto essere un bel thriller. Ma proprio un signor thriller. Amabili Resti aveva le potenzialità per montar su l’inquietudine di illustri antenati, giocando con le inquadrature, con i tempi, con l’espressività di Stanley Tucci, introducendoci nell’universo claustrofobico dell’intimità di un assassino seriale. Avrebbe potuto lasciarci vivere la disperazione senza via d’uscita della famiglia. Avrebbe potuto farci sperare nelle indagini.
Oppure, Amabili Resti avrebbe potuto essere un bel film onirico, almeno per gli amanti del genere, sfoderando i migliori effetti speciali e cavalcando gli svarioni più comuni sul fantomatico aldilà.
Sfortunatamente, però, il film non riesce ad essere né l’una né l’altra cosa, giocando costantemente su uno spiazzante shift di registro che, piuttosto che colpire ed ammaliare, infastidisce, tanto più che cerca di mettere d’accordo due modelli di spettatori pressoché antitetici. Due ore circa, in cui hai la costante sensazione di desiderare un’evoluzione degli eventi o, più semplicemente, di ritrovare l’ispirazione che ti aveva colpita nei primi 40 minuti del film. Ma quell’ispirazione non tornerà mai più, l’inquietudine non riesce mai a completare se stessa, presa dalla periodica turnazione con le visioni buoniste e multi-color dell’adolescente trapassata. Peter Jackson sembra il cugino povero di Jonathan Demme, strafatto di Copelandia Cyanescens.
Alcune belle idee, perché no, solo che, come sempre avviene, quando si cerca di accontentare tutti si finisce col non piacere a nessuno. O, per lo meno, si rischia di non piacere a chi a un film specialmente con un tema del genere chiede di non essere soltanto un polpettone, un put pourrì malamente in bilico sul pathos, sospeso tra dramma e fantasy.
Stendiamo, infine, un velo pietoso su Susan Sarandon, o meglio, sul ruolo della nonna, che sembra inserito nel film per sbaglio, per un’ironia di cattivo gusto, magari perché nel set affianco, negli studi della Dreamworks, giravano la commedia Ti presento mia nonna sbronza e hanno deciso di riciclare il personaggio.
Detto ciò, tu saluti e ti prepari l’insalata per cenare. D’altra parte oggi sei uscita dall’ufficio alle 20 circa per scrivere un improrogabile, essenziale, comunicato stampa sui peli pubici di Nelson Mandela. Hai sentito lo spirito di Tyler scalpitare in te, hai pensato alla lunga settimana che si para, fiera e impietosa, sul tuo cammino e, non potendo prendere a sberle nessuno sulla via del ritorno, per farti forza, ti sei ripetuta nella mente: -9 giorni lavorativi alle ferie.
Saluti,
MB