La frale gentilezza della donna e del ceto
Ricordo di Laura Antonelli, gran dama quasi precipitata per caso nel demi-monde della commedia allitaliana
Di lei rimarranno le frasi velate (come in L’innocente di Luchino Visconti), la verve comica che qualche regista riuscì a farle esprimere (uno per tutti Luigi Comencini in Sessomatto) e quel corpo mai osteggiato ma sempre esibito come tramite tra sé e il mondo, soggetto di desiderio al di là di ogni femminismo.
Spentasi a quasi 74 anni Laura Antonelli era da molto fuori dalla scene eppure il suo fantasma, alla maniera di quello di Elena di Sparta della commedia di Euripide, ovvero eidolon, cioè statua, perciò icona di bellezza, ma anche spettro o figura del sogno, qualcosa di intangibile eppure di tremendamente presente, abitava ancora i desideri degli italiani. Nonostante del suo corpo generazioni di uomini conoscessero quasi ogni centimetro (vedere per credere i manifesti del film Docteur Popeul di Claude Chabrol con Jean-Paul Belmondo), nessuno mai la poté accusare, come tante dive e divette anni Settanta, di volgarità. Perché Laura Antonelli riusciva, dote naturale o conquista di anni di carriera mai lo sapremo fino in fondo, a instillare il desiderio, il folle desiderio, grazie ad un semplice sguardo, ad un lembo di pelle scoperta o anche ad un’intonazione della sua strana voce di attrice di Pola.
Un carattere esule, da gran dama quasi precipitata per caso nel demi-monde della commedia all’italiana, che trovò la sua eterna consacrazione nel celebre Malizia, film del 1973 di Salvatore Samperi. La commedia, ambientata in una Catania anni Cinquanta diretto résumé dei libri di Vitaliano Brancati, vede la Antonelli interpretare una colf (servetta si sarebbe detto nel linguaggio di allora) che accende le voglie non soltanto del ricco padrone di casa, ma anche e soprattutto del giovane rampollo di casa. Eppure, al contrario di una semplice venus in furs venuta al mondo con secoli di ritardo, nello sguardo dell’Antonelli, sempre velato da una vena di tristezza, si rincorre la consapevolezza del proprio essere donna.
La scena della biblioteca, in cui il giovanotto di casa chiede alla Antonelli di salire una scala per prendergli un libro è sintomatico di ciò. È sì un puro pretesto per sbirciare le gambe della cameriera ma la Antonelli, proprio perché né è pienamente consapevole, non sta al gioco ma volutamente lo accelera, tirandosi su la gonna e mostrando il filo del reggicalze. Una scena magistrale, che eleva un semplice indumento, ovvero il reggicalze, a sorta di MacGuffin metacinematografico, che fa venire in mente un altro reggicalze, quello della signora Liliana, la donna trovata senza vita in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda. Scrive infatti Gadda:
Le giarrettiere tese, ondulate appena agli orli, d’una ondulazione chiara di lattuga: l’elastico di seta lilla, in quel tono che pareva dare un profumo, significava a momenti la frale gentilezza e della donna e del ceto, l’eleganza spenta degli indumenti, degli atti, il secreto modo della sommissione, tramutata ora nella immobilità di un oggetto, o come d’uno sfigurato manichino. ( ) Oh, quel viso! Com’era stanco, stanco, povera Liliana, quel capo, nel nimbo, che l’avvolgeva, dei capelli, fili tuttavia operosi della carità. Affilato nel pallore, il volto: sfinito, emaciato dalla suzione atroce della Morte.
L’autore quando scrisse queste righe (il libro è del 1957 ma fu già parzialmente redatto tra il ’46 e il ’47) non lo sapeva ma stava descrivendo proprio Laura Antonelli e la sua frale gentilezza e della donna e del ceto.