Quando Gulliver si ritrova a Brobdingnag, la terra dei giganti, fa una spiacevole scoperta: il corpo degli uomini visto da vicino è impressionante ma disgustoso; pori, peli, sudore si trasformano in enormi ed orribili crateri, foreste, fiumi che contraddicono qualunque, anche pantagruelico, canone di bellezza. Ma perché ciò avviene? Forse perché astrarre un elemento dal suo ambiente genera uno straniante disagio, costringe cioè a ripartire dalla mera osservazione del reale senza la comoda bussola del pensiero già pensato, vale a dire la categoria.
Scendere gli scalini dei giardini di Castel Sant’Angelo e ritrovarsi di fronte all’installazione dello spettacolo Cute (da leggersi rigorosamente in italiano) provoca una reazione non molto distante da quella del celebre personaggio di Swift: fascino e repulsione. Per tutta la lunghezza del palco, si staglia una parete di tele, sacchi, calze; sono materiali poveri, cuciti quasi alla rinfusa tra di loro, come fossero ferite cubiste mai rimarginate. Più che un quadro, forse, il pannello scenografico sembra un’enorme lente, che ingrandisce, penetra e dilata lo strato dell’apparenza, lasciando intravedere ciò che si agita sotto la dura scorza della pelle di un uomo.
Da questa membrana grezza e mutilata cominciano ad affiorare brandelli di corpo: arti striscianti, volti che annaspano, mani e piedi che tastano il mondo al di là; guidata dalle pulsioni musicali dal vivo di Giada Bernardini, la danzatrice Lisa Rosamilia (ideatrice, coreografa, scenografa nonché performer unica dello spettacolo) plasma lo scudo protettivo di quel guscio cutaneo fino a spingersene progressivamente fuori.
L’emersione dalla parete, tuttavia, non traccia il segno di un parto o di un’emancipazione, ma suggerisce piuttosto la maturazione di una consapevolezza, l’evoluzione cioè del senso in coscienza.
Il varco doloroso ma volontario di una soglia, in fondo, è già espresso visivamente dall’installazione stessa, che fonde in sé lo spazialismo di Lucio Fontana e l’informale di Alberto Burri. Lo squarcio che dovrebbe segnare la profondità è suturato dalla rete. Questa brillante fusione di concettualismo e arte povera sembrerebbe, dunque, quasi manifestare il naufragio delle grandi avanguardie di metà Novecento nella cultura del XXI secolo: l’uomo contemporaneo esce, sì, dalla propria bidimensionalità, ma lo fa con la mortificazione dello scarto, con l’umiltà di chi ha patito, compreso e metabolizzato il fallimento.
Pur eccedendo a tratti in ridondanze coreografiche o nel pathos musicale, la compagnia Matroos stimola felici convergenze di linguaggi, confermando l’enorme potenziale (ancora clamorosamente incompreso nella Capitale) della performance quale arte della contaminazione.
Dall’orizzontalità della superficie alla profondità dello spazio, Cute insomma restituisce uno sguardo inaspettato, originale e delicatamente in controtendenza della nostra contemporaneità.
(Foto ©Manuela Giusto Tutti i diritti riservati)