Dato ormai per assodato che siamo nell'era dei remake, dei sequel infiniti, delle saghe interminabili, delle multisale e del 3D ricacciato in gola come fosse colla di pesce, quest’anno ci tocca tornare nel mondo, inventato da Michael Crichton e consegnato all'immaginario globale da Steven Spielberg, dei dinosauri. Trattasi ancora una volta di Jurassic Park, anche se questa volta il concetto si è allargato, diventando Jurassic World. Il parco è stato finalmente aperto e le tragedie del passato chiuse in un baule e gettate nelle profondità dell’oceano.
Nell'agognato quarto capitolo della saga sui lucertoloni, rimasto a lungo nel tunnel produttivo che gli americani amano definire development hell, probabile inizio di una nuova trilogia [sic], tutto è finalmente sotto controllo: le varie specie di dinosauri riportati in vita hanno ognuno una propria area tematica, organizzata a mo' di parco divertimenti per tutta la famiglia, mentre le specie più pericolose sono tenute a debita distanza, ma comunque parte dello spettacolo organizzato. Un vero e proprio zoo preistorico che riesce a totalizzare ogni giorno circa 20mila visitatori.
Importante premessa: questa non è una stroncatura. Il film lo si può vedere, tranquillamente, godere dello spettacolo e tornare a casa contenti di aver ricevuto un Velociraptor della Hasbro in omaggio. Ma qui, mi preme sottolineare altro.
La prima buona mezz'ora del film si può essenzialmente riassumere in questo modo. Il film è classicamente un divertissement per tutta la famiglia, anche se qui, [evviva la modernità], la famiglia non c’è, o c’è in parte. Il drammone familiare si dispiega immediatamente: i genitori si stanno separando e i due fratelli non vanno neppure d'accordo. Per giunta, vengono mandati da una zia (Bryce Dallas Howard) distratta, perfettina e talvolta imbranata, disfunzionale nei rapporti personali quanto estremamente funzionale e vitale nella gestione del parco. L'eroe solitario (Chris Pratt) è un ammaestratore di Velociraptor [sic-2], ai quali ha perfino dato un nome e che, nel più classico dei cliché, è espressione superomistica del macho, uomo d'azione senza paure e senza lati oscuri. Dal punto di vista della sceneggiatura, si poteva fare molto di più. Nonostante il 3D, qui poco funzionale per non dire totalmente inutile, i personaggi sono piatti. Dopo un inizio buonista, da pacche sulla spalla, che strizza l'occhio alle migliori commedie hollywoodiane, perfino con una buona dose di metacinema che non fa mai male e di product placement a non finire, il film diviene finalmente quello che è: un film sui dinosauri. Gli esperimenti genetici votati alla folle ricerca tanto di una nuova, sanguinaria, attrazione per il parco quanto di un moderno armamentario bellico, porta alla creazione dell'Indominus Rex: un essere in grado di assommare i lati migliori di molte specie animali. Inutile dire che questo lucertolone è indomabile, nomen omen, e causerà panico e devastazione.
Quello che davvero rimane indigesto è questa antropomorfizzazione estrema degli animali. Il tentativo che si fa con questo film è quello di liberarsi della tradizione di Spielberg, sì per tutte le famiglie, ma comunque oscura, per approdare a qualcosa d'altro che, a mio parere, non funziona benissimo. La maggior parte delle scene, non a caso, si svolge in pieno giorno: ci sarebbe da discutere a lungo, [The Walking Dead insegna], del perché nel 2015 preferiamo mostrare l'orrore alla luce del sole. Jurassic World ingrana una marcia decisamente diversa quando si passa alla notte: e purtroppo siamo già a tre quarti del film quando questo avviene. La fotografia di John Schwartzman prende vita, le scenografie sono valorizzate, le invadentissime musiche di Michael Giacchino attenuate e lo spettacolo in generale ne trae vantaggio.
Manca, inesorabilmente, la mano del genio. Steven Spielberg, l'unico artista in grado di vendere popcorn perfino a Maria Antonietta d'Asburgo e farlo passare come il più delicato dei piatti, e che qui appare solo come produttore esecutivo. Colin Trevorrow si limita a girare il film, ma non ci mette nulla di suo, resta impersonale per tutto il film. Colin Trevorrow è la nostra brioche, anche se noi, di tutti questi sequel, forse, non avremmo poi così tanta fame.