Manoel de Oliveira, fino alla fine (del mondo)
Viaggio nel cinema infinito del maestro portoghese, scomparso a 106 anni
La morte è un elemento necessario, ahimè, anche per convocare la vita. Almeno lo dovrebbe essere per tutti, tranne che per qualche caso particolare, anime che sono il proprio tempo come il proprio linguaggio, come Manoel de Oliveira. Una specie di oracolo, qualcosa che andava oltre l’essere autore e oltre la stessa Storia. Un nonno che, anche quando si sforza di fare (solamente) cinema, si trova sempre ad esserlo direttamente. Una vita passata a rimuovere i consueti e precisi riferimenti temporali, a raccontare parabole sulla vita e sull’amore. Autore eterno di un cinema parlato, in un’ottica del sogno e nel segno dell’illuminismo, dove ogni fatto è sottoponibile al dubbio e suscettibile di interpretazione, de Oliveira costruisce il suo specchio magico, insinuando, come enigma, una luce in un mare di buio. Un cinema fino alla fine del mondo, ad amare quell’immagine esistita solo in quel fotogramma (o forse no).
Un uomo che attraverso la camera, reagisce a ciò che ha visto, cercando di percepire ciò che era giusto e cosa era sbagliato, quali sono state le forze delle cose che stava vedendo. Nel bel mezzo della lotta e del dubbio, nella continua reazione viscerale del momento, senza paracadute, nel baratro del rischio. Il duro lavoro di cercare di percepire il mondo attraverso uno sguardo che è quasi l’aspetto più intimo della macchina da presa, come la materia che resiste alla nostra volontà. I suoi occhi erano una radiografia delle emozioni della coscienza individuale, sublime e moderna, che diventa esperienza comunitaria, finanche storica. Molto spesso nei suoi film, in un attimo, sospeso e infinito, l’immagine sembra come liberarsi dei contorni che la definiscono, per galleggiare nello spazio dello sguardo, in cerca di un lembo di terra, e/o di corpo, cui ancorarsi. Dall’epopea del muto che stava per dissolversi fino alle impronte digitali che disegnano un’immaginaria linea di fondo dei nostri giorni. Come in una continua ricerca di unità e umiltà in relazione ai luoghi, una complicità con la tradizione che assorbe la memoria.
Era nato a Porto l’11 dicembre 1908 da una famiglia della borghesia industriale. Ha iniziato ad interessarsi al cinema molto giovane, grazie al padre che lo portava a vedere le pellicole di Chaplin e Max Linder. Ha studiato al Colegio Universal, a Porto, e poi al Colegio Jesuita de La Guardia, in Galizia. Il futuro regista riusciì anche a guadagnarsi una certa notorietà come sportivo, praticando ginnastica, nuoto, atletica e automobilismo. Proprio da quell’imprinting così magmatico e caotico de Oliveira parte per la costruzione del suo mondo fluido, attraversato da echi letterari, richiami alla storia e alla tradizione culturale lusitana, accensioni melodrammatiche, ironie filosofiche, metafore teatrali che riflettono spesso le ambiguità tra arte e vita, in un rapporto continuo tra la carica simbolica della parola e del dialogo e la densità delle immagini. Aveva esordito ai tempi del muto con Douro, faina fluvial (1931), un suggestivo poema visivo sul lavoro portuale lungo le rive del Douro. In Aniki Bóbó (1942), più che le influenze del Neorealismo, sono la pietà e la crudeltà nella rappresentazione di un’infanzia tradita e illusa a emergere nella storia di disperati amori infantili. Al film fece seguito un lungo periodo di inattività, interrotto solo nel 1956 con O Pintor e a Cidade, confermando l’attitudine documentaristica che racchiude un senso altissimo della trascendenza, continuamente incarnato nella concretezza di volti, corpi, gesti e suoni radicati nella tradizione millenaria della fede popolare.
Nonostante gli omaggi tributatigli in tutta Europa tornerà a girare solo ad inizio anni Settanta con la tetralogia degli amori frustrati, una spietata e claustrofobica rappresentazione della borghesia, intesa quasi come luogo metafisico di intrecci tra l’esercizio del potere e la forza dei sentimenti. Un cinema in cui emerge la dilatazione ardita dei tempi e dei piani fissi, il peso specifico dei dialoghi come concrezione drammaturgica delle cadenze narrative ottocentesche, il flusso musicale delle sequenze che conservano l’enfasi melodrammatica congelate in un rigore formale e morale estremo; come con Francisca (1981), film di un impressionante lucidità, dalla potenza strutturale del canone romanzesco alla modernità di uno sguardo critico sulla storia. La segue un’altra trilogia in cui si è rivelata costante la dialettica formale tra il palcoscenico e lo schermo, laddove l’impianto teatrale fa da perno per uno scavo del linguaggio filmico nelle sue modalità di durata dell’inquadratura, di montaggio interno, di frontalità dei campi e di strutturazione del piano sequenza.
Negli anni Novanta de Oliveira conosce una seconda giovinezza creativa girando molti film, ogni volta sorprendendo per originalità intellettuale e ricerca linguistica. Da La divina commedia (1991), passano per La valle del peccato (1993) fino a I misteri del convento (1995) il grande cineasta portoghese si perde in lucidissime, misteriose e malinconiche variazioni su temi esistenziali di matrice dostoevskiane come derive faustiane e citazioni shakespeariane. Poi Viaggio all’inizio del mondo (1997), un altro spartiacque pervaso dalla nostalgia per la terra d’origine e in cui un malinconico Marcello Mastroianni diventa il poetico alter ego del regista. Seguono Inquietudine (1998), La lettera (1999), Parola e Utopia (2000) e Ritorno a casa (2001), quattro frammenti di immagini e parole a cavallo del millennio. Storie inanellate l’una nell’altra e ambientate in un interno borghese e in teatro, tra ambienti mondani e decadenti e paesaggi contadini solcati dall’eco di antiche leggende. Eterne variazioni sul senso dell’essere attori e sul valore della finzione, come sul senso di noi e dello stare qui.
Anche con Il principio dell’incertezza (2002) si conferma raffinato indagatore e conoscitore dell’anima. Segue Un film parlato (2003), limpida sintesi della storia occidentale attraverso la parabola di una nave da crociera che si ferma nei porti storici del Mediterraneo; inquietante monito di fronte alla perdita d’identità di un Occidente globalizzato e al ritorno dei fanatismi, nel suono di lingue antiche e moderne. Successivamente, de Oliveira mantiene il sorprendente ritmo di lavoro di un lungometraggio l’anno, realizzando opere come Il Quinto Impero (2004), Specchio magico (2005), Bella sempre (2006), Cristoforo Colombo – L’Enigma (2007), O Vitral e a Santa morta (2008), Singlarità di una ragazza bionda (2009), film diversi tra loro ma accomunati da un elemento ricorrente attraverso la forza sempre più espressiva dell’immagine.
E poi le ultime tre ed infinite fratture. Lo strano caso di Angelica (2010), straordinario e vitalissimo affresco pensato e scritto negli anni Cinquanta per essere girato appena varcato la boa del secolo di vita. Da una fotografia sbiadita, una storia nascosta, ed ecco il cinema, rievocato ancora una volta nelle fratture del vedere e dell’esistere. Segue Gebo e l’ombra (2012), attraverso una stanza della Parigi di inizio Novecento la storia del Portogallo che cambia. Infine l’enorme O Velho do Restelo (2014). Tra i meandri di quei 18 minuti di strati sovrapposti, di doppi fondi e di fili solo apparentemente disvaganti, Oliveira orchestra un giocoso e potente montaggio delle attrazioni in cui si alternano in scena (o nello studiolo della sua mente come specchio magico) Don Chisciotte e Camoes, Teixeira de Pascoaes e Camilo Castelo Branco, citazioni da Doré e Kosintzev, oltre che dai propri stessi film. Un ultimo atto in cui de Oliveira riunisce Spagna e Portogallo come unica, strana penisola tra oceano e deserto, tra Atlantico e Sahara, dall’incanto lunare e fantasmatico, in cui si giuntano e si dissolvono in cifrato destino di disfatta e di perdizione i fantasmi di Don Sebastiao e di Don Chisciotte, di Camilo il Penitente e del vegliardo sentenzioso del V Canto delle Lusiadi.
La fissità dell’occhio di de Oliveira e dei poeti, specchiata dalla fissità dei personaggi richiamati a vivere sullo schermo del ricordo, braci ardenti che portano la mente su schermi assenti, su cui narrare infinite storie non ancora toccate da occhi umani. Gli ultimi venti minuti del de Oliveira autore, riescono a darci la dimensione massima della grandezza del de Oliveira uomo. Tutto è relativizzato, c’è sempre un conflitto tra due soggetti posti su diversi piani della rappresentazione: riprese fisse e frontali, dialoghi estenuanti, espressioni smarrite, tutto qui. Per l’ultima, straordinaria, volta. Negando il cinema come forma artistica specifica, de Oliveira approda a una sorta di estetica vampiresca che si esprime come sintesi di tutte le arti: la scultura, la pittura, la musica, il teatro, la fotografia, l’architettura, amplificano, ancor più che in passato, la rappresentazione cinematografica, aumentandone il fascino e il mistero. Un’idea di cinema senza regole dove tutto è possibile, creato per farci testare la presenza dei fantasmi; il tempo della durata di una proiezione. Nonostante l’incertezza e la precarietà della condizione umana, lo spettatore è, comunque, invitato dal regista ad assumere una posizione critica nei confronti di ciò che vede, di ciò che gli viene proposto. L’alterità come condizione segreta dell’uomo, e luogo della bellezza del mondo attraverso immagini che esplorano oltre l’orizzonte, su questo bordo di catastrofi e di apocalissi. È questo forse il significato più intimo di quegli sguardi in macchina: lo spettatore è chiamato ad operare una scelta, ad assumersi le sue responsabilità. L’inizio e la fine del mondo, la nascita e la morte, il mistero dell’esistenza e la possibilità di ricrearla.
Si è molto scritto e si sta scrivendo ancora moltissimo su de Oliveira soprattutto in Italia (a partire dai fondamentali studi ed articoli di Roberto Turigliatto, Cristina Piccino, Bruno Roberti anche qui citati per cercare di delineare una mappa im-possibile di questo enorme viaggio) ma il suo cinema pare ancora avere aurea di magie inestinguibili. Era forse l’ultimo rito imprevisto del cinema. Come se fosse possibile spiegare l’immagine che, mentre attrezza l’illusione più grande, sta anche mutando la realtà, e assume su di sé il compito di sciogliere la frequenza delle ombre che si addensano. La parola evoca la visione, il senso pacato del vecchio che non vuole turbare le illusioni di un qualche futuro ancora possibile. Questo, e molto altro, era Manoel de Oliveira. Ed ora non c’è più o solamente è lì a galleggiare nell’oceano di tempi e spazi che ci restano, come le pagine di quel libro, o forse è già seduto su quella panchina dei grandi malinconici che guardano ancora noi piccoli sognatori. Così la distanza si amplia, il secolo breve si comprime e noi siamo sempre più soli. Obrigado Manoel.