I taccuini di Mosella Fitch – Pia Di Bitonto | Stefano Massini
Che senso ha raccontare una vita? Un artista, un parente, un rivoluzionario: per quanto celebri o ammirevoli, sono tutti uomini, alla stessa maniera; tante le morti, tante le eredità. Se ne può scegliere una, affezionarvisi, magari tentare di aderirvi, ma poi? cosa cambia? La vita – che senso non ha, se non quel che vi si vuole trovare – insegna che vivere è stare al mondo. Esserci. Allora, forse, meglio ripartire da lì, da quell’umanità indifferenziata che rende tutti uguali. Raccontare sé stessi e in quel racconto di sé ritrovare gli altri ritrovarsi la vita.
Come tante memorie, vere o immaginarie che siano,
I Taccuini di Mosella Fitch ci riportano alla scintilla della vita: la morte. Mosella ha settantanove anni e di stare al mondo non le interessa più granché. A fianco al suo corpo inerte lascia solo una nota: che nessuno si stia a preoccupare di lacrime, lapidi o funerali, se proprio qualcuno vuole conservare un po’ della sua vita che sfogli i suoi taccuini, lì troverà tutto o per lo meno quanto basta.
Rievocata sulla scena dal ritrovamento dei diari, Barbara Valmorin – storico volto del teatro, che annovera collaborazioni con Visconti, Ronconi, Nekroius – accompagna la platea del Teatro Due alla riscoperta di Mosella Fitch: una narrazione che ancor prima di essere racconto biografico si fa irriverente introspezione, rievocazione critica, impietosa e beffarda della vita. La scrittura di Stefano Massini (che ha terminato finora i primi due – di sei – capitoli), infatti, con una certa letterarietà dal gusto pungentemente settecentesco, diserta la strada del ritratto immaginario per avventurarsi in una sorta di viaggio “anti-sentimentale” e picaresco fra i ricordi.
Ecco allora, tappa dopo tappa, prendere forma la satireggiante figura di Mosella, un tipetto impertinente che non le manda a dire: nata sotto la pioggia, fra lo sterco di vacche, si ribella alle imposizioni, si arrampica sugli alberi, fugge via di casa, e guarda all’amore come una grande purga di tutta la merda che la vita costringe a ingoiare. Un animo irresistibilmente anarchico il suo, che sovverte difficoltà e tragedie facendosi beffe di tutti: delle convenzioni, dei sentimenti e di sé stessa.
I Taccuini di Mosella Fitch (regia Pia Di Bitonto, Teatro delle Donne), in fondo, non rappresentano un testamento ai posteri o il dramma di una vita bensì il dialogo interiore di una donna fra passato e presente, un racconto da cui a emergere è soprattutto un’ironia affilata, schietta, pregna di vitalità: forse il lascito più prezioso e sincero – giacché genuinamente involontario – di un’esistenza.