Paris, Texas
Quando Wenders sapeva viaggiare da solo
Paris, Texas è il film di svolta per Wim Wenders che dopo anni passati negli Stati Uniti ritorna definitivamente all’identità europea e questo gli permette, paradossalmente, di riuscire nel film più americano tra le sue pellicole. Sono queste, Il cielo sopra Berlino e Paris, Texas, le due pellicole del ritorno in Europa di Wenders, oltre che due tra i film più premiati e acclamati da pubblico e critica, non c’è quindi da stupirsi se l’Orso alla carriera della Berlinale viene festeggiatoproprio con la ridistribuzione di questi due film culto nelle sale.
Il viaggio, tema tipico americano, è un leitmotiv che accompagna la carriera del regista tedesco: Alice nelle città tra i tanti esempi; un tema riportato all’attenzione filmica con un linguaggio figlio dell’autorialità tedesca del nuovo cinema europeo che si manifesta nel punto di vista personale, nell’accarezzare i soggetti senza pedinarli. Il viaggio è innanzitutto quello all’interno delle inquadrature, l’incontro tra la macchina da presa e lo sguardo del regista sul soggetto e sull’ambiente che lo incornicia. Un viaggio che muove carrelli attorno ai protagonisti come a suggerire un dolce accerchiamento che cerca di penetrare all’interno del personaggio e della sua storia, una narrazione che si mescola al discorso indiretto libero; metodi e contenuti che con Il cielo sopra Berlino diventeranno pietre miliari.
I campi lunghi e gli improvvisi particolari dell’incipit nel deserto non narrano una storia ma inseriscono immediatamente lo spettatore nello spaesamento del protagonista: uno sconosciuto (Henry Dean Stanton), muto, apparentemente senza nome né passato. Pian piano, costruiamo la sua storia in un film che insolitamente, rispetto agli altri lavori di Wenders, ha una narrazione lineare. La storia dei personaggi è costruita da immagini, sensazioni, filmini, come il super8 in cui si vede per la prima volta Jane, e poi da lunghi dialoghi che raccontano, questa volta sì, le vicende che giustificano la percezione di disagio e di vuoto che il regista ha trasmesso allo spettatore sin dalla prima inquadratura; accade così che il racconto diventi rivelazione, non di qualcosa di nuovo e inaspettato, bensì una sorta di riconoscimento di sensazioni che serpeggiano nelle immagini evocative sin dall’inizio e che improvvisamente sembrano essere motivate dalle parole che danno voce al passato.
In ogni road movie che si rispetti il perno su cui ragionare è di certo il luogo: il punto di partenza che è anche punto di arrivo della riflessione, in questo caso anche titolo dell’opera, località ben precisa ma anche fraintendimento: Parigi, non quella in Europa ma in Texas. Un inganno voluto, un cortocircuito che richiama ancora l’attenzione sul continente di provenienza di Wenders, ma solo per un attimo, per un errore che ribadisce l’importanza di partire dal luogo in cui si è stati concepiti ed è quindi ancora una volta un espediente, seppur ingannevole, per un ritorno all’origine.
Lo scioglimento quello che nel più classico delle strutture narrative è l’agnizione è anch’esso atipico: un modo per ribadire l’estraneità e l’impossibilità di riappropriarsi delle strutture narrative classiche, è un riconoscimento filtrato da un vetro in cui non ci si riesce mai a guardare negli occhi. L’unico modo per preservare un amore è proprio quello di non guardarsi, «era più facile senza averti di fronte» dice Jane, il tentativo di allontanarsi fidandosi ciecamente dell’altro, quello che a Orfeo e a Euridice non riuscì per troppo amore a Travis e Jane riesce perfettamente; ma è un successo amaro e figlio della sconfitta umana dell’epoca contemporanea.
Un film che, con la Palma d’Oro del 1984, consacrò definitivamente il regista tedesco alla gloria di pubblico e critica, un’opera da vedere per riscoprire quel Wenders che a molti manca, il ricercatore instancabile che riflette sull’umano senza la necessità di usare i vissuti di grandi artisti per scoprire la forza potenziale dell’individuo. Wenders, il viaggiatore, in grado di creare una mappa esistenziale tramite l’inquadratura della schiena scoperta di Nastassja Kinski, senza la mitomane missione di diffusore di cultura che ultimamente ha fatto sostituire a quella schiena la vita di artisti-monumento come la Bausch e Salgado.