Tra i film più attesi di questa Berlinale già al secondo giorno, Queen of the Desert segna il ritorno a un alveo produttivo più tradizionale e costruito nel cinema di Werner Herzog. Il biopic narra per la prima volta la storia di Gertrude Bell, britannica annoiata dall’alta società cui appartiene e che sceglie di fuggire in Medio Oriente, dall’Iran all’Arabia, diventando un’esperta delle culture locali, fino a essere una figura quasi mitologica e geopoliticamente forte. Da tutto ciò ne deriva un film senza dubbio discutibile, ma di difficilissima interpretazione.
Nicole Kidman ha un debole per la letteratura persiana e per James Franco, qui negli improbabili panni di un inglese a Teheran con un passato da imbroglione del tavolo verde. Per non dimenticare un Robert Pattinson negli ancora più scomodi panni di Lawrence d’Arabia. Il tutto in una cornice classica che si lega agli storici film girati in deserto e la complicità della sbarazzina Kidman che annienta (o ne è annientata da) tutti gli altri co-protagonisti. Herzog lavora ai margini della convenzione; sul confine che punta gli occhi. Il suo è un attraversamento continuo del possibile spazio e tempo, della ricostruzione come della storia, delle visioni come dei paesaggi.
Nonostante tutto (non dimenticando il fatto che si tratta di un film commissionato) Herzog riesce a portare a termine con fatica la missione, nonostante un acclarata mostra di luoghi comuni europei (e non solo) della vita nel deserto e trasformando la Kidman in un elemento del paesaggio/passaggio, soprattutto quando l’occhio dell’autore si apre verso sguardi molto più consoni alle proprie avventure. Sicuramente un film minore, che non può aggiungere nulla alla carriera del grande regista bavarese, ma non per questo da deprecare. Anzi, da vedere.