Non sembriamo farci caso, ma ogniqualvolta andiamo a teatro ci sottoponiamo a un completo abbandono. Si tratta di un’azione istintiva, un atto deliberato di fiducia: qualunque cosa accadrà davanti ai nostri occhi, la crederemo come reale. Lo chiamano principio della sospensione dell’incredulità. E, bene o male, è la norma. Ma poi ci sono delle volte in cui la simbiosi con lo spettacolo diventa talmente forte che il suo sembiante, la sua concretezza oggettiva, si lascia chissà come dimenticare; e tutto a un tratto si rimane sospesi nell’evocazione, in quella realtà altra innescata da parole e gesti, che non esiste in alcun luogo eppure lega a doppio filo palco e platea: è la dimensione dell’effimero.
Perché una premessa tanto ingombrante? Perché ieri sera sulla scena dell’Argot, Leonardo Capuano ha trasportato la gremita sala della prima nel mondo del suo solitario balbuziente e, dopo appena due minuti, nessuno ha più fatto caso all’apparenza. D’altronde un uomo sulla cinquantina, che tartaglia spaccati di vita famigliare, probabilmente immaginati, a volte ai limiti dell’assurdo, e per di più con addosso un vestito da donna, qualche momento di sana perplessità avrebbe anche potuto suscitarlo. E invece no. Un’ora scivola via e sono pochi gli spettatori che saprebbero spiegare davvero cosa sia accaduto.
Certamente chiunque potrà dirvi che sul fondo c’era un tavolo, bianco e tondo, attorno a cui gravitava un tale che dava voce a una madre con la mania dell’esoterismo, ma anche a una brigata di fratelli dagli intrattenimenti bizzarri, o ai sogni di una storia d’amore poetica e buffa; eppure Elettrocardiodramma (produzione 369gradi/Armunia) non è questo, non esattamente, non solo. Già, perché attraverso un’interpretazione talmente puntuale da apparire genuinamente “normale”, Capuano dà vita a una possibilità del reale. Poco importa se sia quella del suo balbuziente, di un figlio con la sindrome di Tourette o di un uomo solo che reinventa il proprio mondo, ciò che emerge è il ritratto concretissimo di un pensiero. Così maldestro e così sincero da diventare immediato – per chiunque.
Infrangendo, a suo modo, il meccanismo forsennato delle nuove produzioni, la rassegna congiunta di Dominio Pubblico consegna alla Capitale (e grazie alla collaborazione con l’ATCL anche, poi, a Rieti e Viterbo) un’altra importante traccia di teatro contemporaneo. Un teatro che riesce a operare quell’utile scarto per cui la schiacciante realtà si trasforma in un’evasione realizzabile: non tanto, però, proiezione immaginaria di uno stato emotivo-psicologico, bensì passeggiata funambolica tra il possibile e l’impossibile, in sospeso sul filo dell’ironia.
Il mondo non sarà mai per noi altra cosa se non quello che è per noi. [ ] Rivoluzione? Cambiamento? Ciò che io voglio davvero con tutta la verità della mia anima, è che passino le nuvole atone che insaponano grigiamente il cielo; voglio vedere l’azzurro che spunta fra di loro, verità sicura e chiara perché è niente e niente vuole.
Teatro Argot Studio, Roma – 27 febbraio 2015
In apertura: Foto di scena ©Manuela Giusto