Si dice che il silenzio sia l’assenza di suono: ma quanto rumore può fare quel vuoto?
In un romanzo caro a molti ma sfogliato da pochi, si narra la storia di un pianista la cui spiccata sensibilità un giorno andò in frantumi, quando in una sala del Mozarteum di Salisburgo ascoltò un tale d’oltreoceano sussurrare con imponderabile semplicità uno dei brani più matematicamente perfetti mai composti. Quella musica erano le Variazioni Goldberg di Bach, lo straniero Glenn Gould, l’uomo devastato Wertheimer e il racconto della sua distruzione – inventato da Thomas Bernhard – porta il nome de Il Soccombente. Ma forse questo non importa, perché sulla scena dell’Orologio il doloroso silenzio di questa storia risuona con esasperato fragore.
Sulle assi spoglie della stretta Sala Gassman, un uomo cammina nervoso attorno a una piccola panca: le scarpe di gala sbattono sul pavimento, lo sguardo esitante solca l’aria e, sotto un frac bianco, strati e strati di vestiti premono sulla sua persona; ancora qualche passo incerto e poi prorompe in un soliloquio fluviale: macina parole, pensieri, propositi, si agita, inveisce, snocciola il rancore nei confronti di una sorella esasperata che lo ha abbandonato; ci trascina nei ricordi, affiorano sprazzi di passato, la fatale conoscenza di Gould; e poi l’evocazione di quella festa enorme, esagerata, affollata di amici che non erano mai stati tali, e la confusione, la volgarità, le bestemmie di un pianoforte scordato – tutto per celebrare nel livore di un insistito silenzio la propria condanna a morte. Così, mentre la vertigine verbale ci lascia sprofondare nella caduta, gli abiti premono sempre più soffocanti sulle parole; e a un tratto dall’eccesso emerge il vuoto.
Ma anche questo, in fondo, ha poca importanza: l’anima di Fragile Show non va cercata nella febbrile interpretazione di Andrea Trapani ma altrove, o meglio, attorno. È un altrove, infatti, che si accumula nell’esitazione fra un colpo di tacchi e l’altro, o nella lunga ombra che trema curva sulle pareti, o in quel dolore soffocato che non esce mai fuori, che rimane lì, dietro le parole, sospeso, oscillante, come la corda invisibile cui questo toscaneggiante e moderno alter-ego di Wertheimer finirà per impiccarsi. “Un suicidio lungamente premeditato” scriveva in epigrafe Bernhard “non un atto repentino di disperazione”.
La Compagnia Biancofango (Francesca Macrì e Trapani), insomma, non traspone sulla scena Il Soccombente, ce ne mostra semmai l’ombra, cesellando a sbalzo la verità, lasciandoci immaginare ciò che manca, evocando in quel buio concitato di parole tutto il silenzio interiore e fatale del suo protagonista. Ed ecco allora che dal ritratto in controluce di questo vulcanico inetto, ci appare il quadro di una perenne generazione di fragili, schiacciati più dalla propria insicurezza che dall’aura ominosa di geniali Gould: una fragilità ridicola e toccante, dunque, che nella perdita dei valori contemporanea assume un’eco sorda ancora più eloquente, portandoci a ritrovare nell’eruzione verbale di questo moderno uomo del sottosuolo il padrino spirituale di frotte di adolescenti di cui la società negli ultimi trent’anni sembra essersi completamente dimenticata, lasciandoli a devastare il mondo e a consumarsi in un rumore che è tanto più violento quanto più lacerante è il vuoto esistenziale che li divora.
Teatro dell’Orologio, Roma – 20 gennaio 2015
In apertura: Foto di scena ©Manuela Giusto