887, o il proprio posto nella storia – Robert Lepage
Perché ci facciamo la guerra a vicenda? Forse perché non riusciamo a ricordare. È questo che sembrerebbe suggerire tacitamente Robert Lepage con il suo 887 (produzione Ex Machina). Il cosiddetto vuoto di memoria in fondo non è altro che uno strappo temporale, la rottura di quel ponte che collega causa a effetto, crollato il quale ci si ritrova ognuno su un argine, con le proprie ragioni, ma senza più alcuna continuità: solo un grande e pericoloso vuoto a ribadire la distanza.
Lo spettacolo, infatti, ha inizio proprio da un problema mnemonico: Lepage non riesce a imparare a memoria i versi di Speak White (Parlez blanc) di Michèle Lalonde, la poesia del ’68 che è memoria-manifesto del Québec separatista, la ragione francofona nel Canada sudorientale. Ma questo ancora non lo sappiamo, l’artista canadese (ideatore, regista, autore e interprete unico) entra in scena con aria distratta accennando alla cosa come se quella buffa impasse a memorizzare dovesse innescare uno spettacolo comico; e invece l’espediente sarà la chiave per accedere a una storia che da privata si farà collettiva.
Ad amplificare tale allargamento prospettico interviene la poderosa macchina scenografica ideata da Lepage stesso e Steve Blanchet. Un giro di novanta gradi ed ecco che quella semplice parete nera alle sue spalle si trasforma nella facciata della casa d’infanzia all’887 di Rue Murray a Quebec City; un tocco e quello che sembra un modellino in scala si accende di finestra in finestra con animazioni video; un nuovo giro alla scatola scenografica e gli appartamenti in miniatura schiudono stanze, appartamenti, locali; mentre intanto nuove ministruttture mobili su carrello fanno il loro ingresso per essere scrutate dal vivo dall’occhio tecnologico di Lepage che come il diavolo Asmodeo di Alain-René Lesage scoperchia tetti con la videocamera del suo cellulare per mostrarci l’indiscriminatamente piccolo delle masse anonime.
Ogni narrazione, così, finisce per rappresentare un microuniverso compiuto e al tempo stesso un tassello emblematico del grande e frammentato mosaico quebecchese.
Ricordare, insomma, diventa atto di riappropriazione: riappropriazione della storia, della “propria” storia. Ma chi si nasconde dietro questo concetto di “proprio”? Qual è la vera identità del Quebec? Pur con qualche lungaggine e una certa linearità drammatica (le incursioni in italiano, benché apprezzabili, rallentano il ritmo; e a nostro avviso le scene migliori sono quelle in cui la parola cede spazio al silenzio, a un minimo spostamento di lettere, alle splendida eloquenza di ombre animate), Lepage spinge a interrogarci proprio su tale concetto di “proprio/riappropriazione”: la riscoperta della “propria storia” scatena l’acquisizione consapevole di una responsabilità.
Con garbo e leggerezza, di fatto, l’artista canadese non fa sconti a nessuno, né agli angolofoni né ai separatisti, né ai suoi dirimpettai né alla sua famiglia: tutti condividono il diritto di essere ciò che sono diventati e, al tempo stesso, la colpa di non aver agito diversamente.
La storia, d’altronde, non è semplicemente la truffa architettata da un pugno di potenti ma la collusione inconsapevole di tutti quegli individui che non sono mai riusciti a diventare collettività.
Letture consigliate:
Robert Lepage e la nuova epica orale di 887 , di Anna Maria Montverdi (Teatro&Critica)
Tutti gli articoli su Robert Lepage a cura di Anna Maria Montverdi (AM Digital Performance)
Lepage, la rivoluzione della memoria , di Andrea Porcheddu (Gli Stati Generali)
Ascolto consigliato
Teatro Argentina, Roma – 25 settembre 2015