#5 Racconti dalla Berlinale
Le ultime giornate della Berlinale regalano il film più forte del concorso: DAU. Natasha dei russi Ilya Khrzhanovsky e Jekaterina Oertel. Il lungometraggio, come ricorda il titolo stesso, è parte dell’assai controverso progetto sperimentale DAU ideato da Khrzhanovsky e supportato da personalità, tra le altre, come Marina Abramovich, Romeo Castellucci, Brian Eno. Nel 2009, in un teatro ucraino, è stato ricreato in tutti i dettagli un istituto di ricerca scientifico dell’ex URSS (DAU è soprannome del fisico Lev Landau, figura che ha ispirato il progetto), nel quale Khrzhanovsky negli anni ha riunito uno sconcertante cast di volontari disposti a vivere, continuamente ripresi dalle telecamere, la quotidianità dell’epoca staliniana. Il progetto è quindi sia esperienziale (si veda la mostra immersiva installata a Parigi l’anno scorso), sia cinematografico: nell’istituto più film sono stati girati, come è il caso di Natasha, con i volontari ormai giocoforza naturalmente calati nei loro ruoli. Natasha (Natalia Berezhnaya) gestisce, con l’aiuto di Olga (Olga Shkabarnya), la mensa dell’istituto sovietico: tra fiumi di alcol, tensioni e invidia nei confronti della collega più giovane e attraente, Natasha ha una relazione con il fisico francese, lì in visita, Luc Bigé. Questo rapporto – amoroso per lei, solo sessuale per Bigé – è malvisto dai paranoici servizi segreti, che subito convocano la donna per interrogarla. La parte relativa all’interrogatorio, con scene di tortura psicologica e fisica su Natasha, è quella più esplicitamente violenta del film. La percezione di un clima di angoscia e di inquietudine è tuttavia sempre pulsante anche nei lunghi dialoghi tra Natasha e Olga, offuscate dall’alcol, e più in generale sui volti e nei comportamenti di chi frequenta la mensa. Nel film traspare tutta la drammaticità del vivere spiati e monitorati dal regime e si avvertono, in maniera disturbante, il terrore e la violenza esercitati sulle coscienze prese in un brutale meccanismo socio-politico. Per tutte queste ragioni, considerata anche la sua genesi scenico-concettuale, DAU. Natasha non può lasciare indifferenti.
Il taiwanese Tsai Ming-Liang ha portato a Berlino il suo Rizi (Days). Con la sua consueta regia, fatta di lunghi silenzi (ironicamente il film si apre avvertendo che non ci saranno sottotitoli) e sequenze fisse, il regista racconta in modo sublime la solitudine di due uomini (Kang e Non, interpretati da Lee Kang Sheng e il debuttante Anong Houngheuangsy), che si risolve, anche se per breve tempo, in un incontro amoroso dei loro corpi.
Burhan Qurbani, giovane ma affermato regista tedesco nato da genitori rifugiati afghani, porta in concorso Berlin Alexanderplatz, rischiosa e coraggiosa rielaborazione del celebre romanzo di Alfred Döblin. Francis (Welket Bungué) sopravvive alla sua fuga in mare dall’Africa e a Berlino viene ribattezzato Franz dal manipolatore e sociopatico Reinhold (il bravissimo Albrecht Schuch), che lo avvia alla criminalità. Il film conferma l’attualità del romanzo; la riscrittura narrativa è convincente e coinvolgente, anche se talvolta un po’ macchinosa.