#4 Racconti dalla Berlinale
I gemelli Fabio e Damiano D’Innocenzo a distanza di due anni da La terra dell’abbastanza presentato nella sezione Panorama, tornano a Berlino, questa volta nella competizione ufficiale, con Favolacce. In un quartiere della periferia romana, zona Spinaceto, più famiglie si stanno preparando ad affrontare un’afosa estate. A far da collante tra tutte queste famiglie è un diffuso sentimento di frustrazione e angoscia. La famiglia Placido, composta da Bruno (Elio Germano), padre disoccupato, la moglie Dalila (Barbara Chichiarelli) e i due irrequieti figli, ne è la rappresentazione perfetta: basta che un boccone di carne vada di traverso al figlio perché tutta la famiglia scoppi in un pianto isterico e apparentemente ingiustificato. I ragazzini della zona hanno finito la scuola e iniziano a gironzolare nel quartiere. Sono soprattutto loro ad avvertire la tensione che i genitori palesano unicamente con gesti insani come quello di bucare una piscina gonfiabile appena comprata. La loro infanzia è fatta solo di ‘favolacce’, di brutti esempi e di particolari progetti per le vacanze estive che annunciano la tragedia collettiva che si sta per consumare. Nel rappresentare questo quadro di vite distruttivo e ansiogeno, i registi scelgono solo la strada visiva. I dialoghi tra genitori e figli non esplicitano i problemi vissuti; sono le lunghe e potenti scene fatte di silenzi, sguardi abbacinati, volti e corpi madidi di sudore a rivelare il disagio di questo quartiere. La regia da questo punto di vista non è solo convincente, ma anche e soprattutto perturbante con uno stile dove emergono però un po’ troppo le influenze del cinema americano alla Van Sant o alla Wes Anderson. L’utilizzo di questo linguaggio cinematografico su uno scenario territoriale e sociale italiano è l’unica ma certo problematica criticità del film.
Il sudcoreano Hong Sang-soo non tradisce le attese con il film Domangchin yeoja (The Woman Who Ran). I vari appuntamenti con le amiche di un tempo fissati dalla protagonista Gamhee (Kim Min-hee), “in licenza” momentanea dalla routine della vita matrimoniale, sono ricchi di confidenze, pudori e ironie, che nel loro manifestarsi sono inquadrate da una regia sempre riconoscibile nella sua fissità ed essenzialità. Solo l’utilizzo dello zoom dà movimento a questi incontri e si traduce (o forse si tradisce) nell’invito rivolto allo spettatore a curiosare sulla scena per carpirne i segreti più divertenti e poetici.
Never Rarely Sometimes Always è il lungometraggio portato dall’americana Eliza Hittman che, sulla scia di Beach Rats, si focalizza ancora sul mondo adolescenziale. Autumn (la debuttante Sidney Flanigan) e Skylar (Talia Ryder) sono due diciasettenni della Pennsylvania che si affacciano alla vita, tra una famiglia pressoché assente e un ambiente, soprattutto quello maschile, assai rude nei loro confronti. Quando Autumn rimane incinta, le due amiche intraprendono un viaggio notturno verso New York dove lei può abortire senza il consenso dei genitori. Il sistema sanitario nel quale s’imbatte Autumn emerge in tutto il suo crudo realismo; d’altro canto il ragazzo incrociato in città con il suo comportamento conferisce ulteriore rilievo all’abuso della femminilità, anche corporale, ai danni delle due giovani donne (si pensi poi, ad esempio, al questionario posto a Autumn “never rarely sometimes always”). Hittman ha saputo realizzare un film intenso, di talento, con due giovani bravissime attrici, sui volti delle quali la regia insiste alla ricerca delle loro sfumature emotive.