#2 Racconti dalla Berlinale 2020
L’americana Kelly Reichardt si presenta in gara a Berlino con First Cow, adattamento del romanzo The Half Life di Jonathan Raymond (lo scrittore ha partecipato alla sceneggiatura). Siano nella prima metà del 1800 e ‘Cookie’ Figowitz (John Magaro), fornaio originario di Boston, è costretto a fare da cuoco al gruppo di frontiersmen con cui sta viaggiando nella folta vegetazione dell’Ovest americano, dove incontra per caso King-Lu (Orion Lee), immigrato cinese in fuga. Nasce una forte amicizia e i due decidono di avviare una qualche attività che li possa rendere ricchi. La scelta ricade sulla produzione di dolci; Cookie sa cucinare e il colono inglese che presidia l’avamposto di confine in cui si trovano ha appena comprato una mucca, l’unica del posto, dalla quale ogni notte i due amici possono prendere il latte, ingrediente per i loro biscotti che ben presto vanno a ruba. Dietro alla loro attività di successo si cela quindi un furto, espediente criminale necessario per chi non ha possibilità economiche. Sullo sfondo della vicenda ci sono del resto i primi segnali delle contraddizioni del capitalismo americano e il cinismo delle zone di frontiera dove sui sogni inevitabilmente prendono il sopravvento i pericoli della realtà. A casa del colono inglese, oltre alla “prima mucca”, ci sono anche gli indiani d’america resi docili domestici; attorno ad essa si espande la natura lussureggiante e incolta, alla quale la regia conferisce un rilievo quasi lirico, soprattutto quando i due amici cercano riparo, una volta che la loro attività notturna è stata scoperta. La Reichardt, nonostante un avvio un po’ in sordina, tiene assieme benissimo tutti questi elementi; il film è tenero e incisivo e sa ben veicolare l’amicizia quale valore salvifico e necessario anche per un’etica, come quella americana, da sempre fondata sulle contraddizioni economiche e sul successo individuale.
Altro film in concorso è Le sel des larmes diretto da Philippe Garrel. Il regista francese, per la prima volta in gara alla Berlinale, ancora una volta osserva da vicino le relazioni, oramai suo oggetto primario di indagine. Il protagonista Luc (la sorpresa Logann Antuofermo) si trova a Parigi per sostenere l’esame di accesso alla prestigiosa scuola Boulle, primo passo per diventare ebanista, percorso che suo padre (André Wilms) avrebbe sempre sognato di intraprendere. Lì incontra Djemila (Oulaya Amamra) con la quale inizia una fugace relazione. Luc ha tutti i tratti del seduttore: una volta rientrato a casa, a Djemila sostituisce Geneviève (Louise Chevillotte) e a quest’ultima infine Betsy (Souheila Yacoub) nella nuova vita parigina. Tra un figlio non voluto e un amore a tre che Betsy gli impone, Luc sta tuttavia anche cercando di comprendere il senso del suo rapporto col padre. Ecco quindi che Garrel, in maniera elegante e ben modulata (per la sceneggiatura può avvalersi della collaborazione di Jean-Claude Carrière e Arlette Langmann) riesce a far convergere tutte queste storie d’amore nel vero fulcro emotivo del film: la figura del padre, l’unica per la quale Luc riesce infine a piangere amaramente e in solitudine. Con un evidentissimo stile alla Nouvelle Vague, in una dimensione quasi atemporale complici una voce narrante che segue le vicende e la fotografia in bianco e nero di Renato Berta, Garrel, vero maestro di cinema, riesce come sempre ad appassionare lo spettatore e a mettere in scena storie che, nella loro semplicità, colpiscono e parlano a tutti.
Todos o mortos è invece il film dei brasiliani Caetano Gotardo e Marco Dutra. Ambientato nel Brasile del 1899, dopo l’abolizione della schiavitù, racconta le vicende della famiglia Soares, proprietaria di piantagioni in crisi economica. La sinistra Ana (Carolina Bianchi) e la sorella suora (Clarissa Kiste) cercano di convincere Ina (Mawusi Tulani) ex schiava a tornare in casa per assistere la loro madre (Thaia Perez) sempre più fragile e malata, soprattutto dopo la morte della vecchia serva Josefina. Si scontrano così due anime del Brasile di oggi e di allora come suggerisce il suggestivo finale; Ana non accetta i cambiamenti sociali mentre Ina e i suoi rituali atavici africani utili a curare la signora Soares sono accettati solo ora dalle sorelle per ragioni egoistiche. Il film si regge su una regia affascinante e su un’interessante galleria di più personaggi, ma la narrazione talvolta si ingarbuglia, rendendo complicata la comprensione di tutti gli accadimenti.
Per la sezione Berlinale Forum, era particolarmente atteso La casa dell’amore di Luca Ferri, capitolo conclusivo della sua trilogia “domestica” iniziata con Dulcinea e proseguita con Pierino. Questa volta il luogo domestico prescelto è l’appartamento dell’hinterland milanese di Bianca Dolce Miele, transessuale che si mantiene prostituendosi. Nel suo piccolo spazio casalingo, vediamo Bianca ricevere più telefonate per fissare gli appuntamenti di lavoro, tra le locandine delle mostre del padre scultore e qualche amico invitato a cena. Girato in digitale, il film mostra tutta la realtà di Bianca, da quella esistenziale (la sua solitudine e l’attesa delle telefonate di Natasha, la sua compagna distante) a quella fisica (parti del corpo e rapporti sessuali). Il regista bergamasco, che ha trovato Bianca tramite un sito di incontri, ha saputo entrare nel suo habitat lentamente, senza alcun tipo di pretesa narrativa se non quella di registrare la naturalezza degli incontri che lì hanno luogo. La stessa figura di Bianca non è sovrastata da una regia tesa a incorniciare una tematica LGBT: ci viene mostrata la sua condizione di vita, tra solitudine e dialoghi talvolta dissacranti e (finalmente) lontani dal politically correct.