Gus Van Sant
100 registi (e tantissimi film) che migliorano una vita
Indipendente. Una parola di moda, un concetto di cui si abusa spesso. Ma definizione che si riempie di significato quando accostata alla parabola artistica di Gus Van Sant, americano di Louisville, regista libero, poeta dell’adolescenza, critico implacabile dell’America, rigoroso sperimentatore visivo. Nato pittore e designer, affascinato dalla pellicola, frequentatore dell’underground di Los Angeles (la faccia disperata di Hollywood), esordiente nel 1985 con Mala Noche, interamente autoprodotto.
All’alba degli anni Novanta gira due film che lo rendono il massimo esponente dell’indie americano, campione di un cinema lontano dal gusto standardizzato dalle major, cinema di pochi soldi e tante idee, espressione degli ultimi vagiti di una controcultura in regressione ma ancora viva: Drugstore Cowboy, con comparsata del mito beat William S. Burroughs, e Belli e dannati (osceno titolo italiano di My Own Private Idaho). Ideale dittico di personalissima arte visiva, dipinti raffinati di un’adolescenza marginale e disperata, fotografata nell’iconografico nord-ovest, incarnata da attori come Matt Dillon, River Phoenix, Keanu Reeves.
In trent’anni di carriera Van Sant ha mantenuto sempre l’integrità di autore e l’aderenza alla sua personale ricerca visiva, anche nei film in cui si è trovato a confronto con le major: Wil Hunting – Genio ribelle e Scoprendo Forrester hanno al centro, come in tanti titoli precedenti e successivi, giovanissimi uomini in cerca di una maturità e di un mentore, di un posto nel mondo per la loro unicità; mentre Milk vede l’adesione sentimentale alla biografia del primo politico dichiaratamente omosessuale della storia americana.
In una filmografia densa e con pochi momenti di stanca spicca l’immensità di Elephant, uno dei film-chiave del nuovo secolo, primo a vincere nel 2003 a Cannes sia la Palma d’Oro che il Premio alla regia. Geniale pedinamento che scompone una giornata come tante in una scuola come tante, adolescenti che camminano avanti e indietro inseguiti da una camera in perpetuo piano sequenza, dispositivo visivo quasi neutro, suprema affermazione della libertà di sguardo dello spettatore. E da pedinatori entriamo nell’orrore della violenza insensata, impotenti assistiamo al massacro compiuto da due dei nostri adolescenti come tanti. Massacro che sarebbe proprio come quello di Columbine, ma che diventa qui opera d’arte astratta senza perdere, anzi acquistando, forza sconvolgente.