Andrej Tarkovskij
100 registi (e tantissimi film) che migliorano una vita
Andrej Tarkovskij (1932-1986) rimane un autore originalissimo, il suo cinema è arte non per tutti. Tarkovskij ha sempre camminato su un terreno scivoloso e ghiacciato, ignorando l’ottimismo programmatico del realismo socialista”, i messaggi rassicuranti, la totale fiducia nell’uomo e nella sua capacità di migliorare il sociale. Un cinema che muove dal profondo, dall’oscurità delle cose e delle persone, verso la ricerca di un senso nascosto. Intenti morali e tecnica di ripresa si fondono armoniosamente in un linguaggio cinematografico unico, una “visione” altra del mondo, soffermandosi a scrutare per decine di minuti un vetro appannato, una pozza d’acqua, la fiamma di una candela. Frequentò a Mosca il VGIK, dove seguì i corsi di Michail Romm diplomandosi con il mediometraggio Il rullo compressore e il violino. Raggiunse la notorietà internazionale con L’infanzia di Ivan.
Il film, delineava già alcuni tratti tipici della poetica tarkovskiana: di fronte all’orrore della storia l’uomo ritrova la propria individualità nel recupero, a volte solo onirico, di un’infanzia in comunione con l’elemento materno e naturale. Il successivo e biografico Andrej Rublëv è considerato uno dei momenti più alti dell’intera storia del cinema. Un affresco per rappresentare il tempo nelle sue forme e manifestazioni fattuali, e il suo ritmo si definisce in funzione del tempo che scorre, con accelerazioni o rarefazioni che si adeguano a quelle della realtà visibile. L’arte è eliminazione del superfluo, a partire da convenzioni stilistiche divenute pregiudizi (il vuoto della parola, musica amplificazione empatica della scena, ritmo affidatato al montaggio). L’atto è visione teurgica dell’arte, comprende una serie di critiche a concezioni estetiche di segno utilitaristico (realismo) o intellettualistico (avanguardie, critica formalista e poi strutturalista). Nel successivo Solaris avanzò dubbi etici sulle conseguenze del progresso tecnologico. Con Lo specchio il regista ruppe definitivamente con le convenzioni del cinema sovietico; un’interrogazione sulla figura materna in tutti i suoi aspetti, da quello personale e psicologico a quello storico (la madre Russia) fino a quello ontologico (la natura, luogo di mediazione tra il divino e l’umano).
A partire dal fantascientifico Stalker, il suo cinema assunse un carattere sempre più profetico; il viaggio diviene specchio di una contemporaneità in cui solo i più umili riescono a conservare il senso di attesa e di fiducia in miracoli ormai inaccettabili per il razionalismo scientifico e lo scetticismo decadente, entrambi negatori della funzione salvifica del desiderio. La stessa ansia apocalittica anima Nostalghia storia di un poeta russo in viaggio per l’Italia sulle orme di un musicista settecentesco che diviene per il regista uno spunto di riflessione; le antinomie si palesano ora come contraddizioni prive di forza vitale. L’attrazione tra arte e santità viene ripresa in Offret, all’interno di una struttura drammaturgica molto più coesa: un ex attore fa voto di silenzio per scongiurare l’apparentemente imminente catastrofe nucleare. In questo film-testamento, dedicato al figlio e girato mentre il regista già sapeva di essere malato, la polarità tra la salvezza affidata a un sacrificio solitario e invisibile e la distruzione dell’umanità, causata dal presente stato di deserto spirituale, diventa così assoluta. L’ultima immagine di assoluto.