Matricidio impossibile
A Bari si festeggiano i 10 anni di Fibre Parallele
Il legame creatosi tra Bari e Fibre Parallele in questi anni è uno di quelli indissolubili, impetuosi, passionali. La compagnia pugliese, fondata da Licia Lanera e Riccardo Spagnulo, ha tratto linfa vitale dalla sua terra natia; da essa ha saputo nutrirsi per elaborare uno stile personalissimo e un punto di vista (apparentemente) deformato ma (sostanzialmente) molto concreto e veritiero del nostro presente; restituito sul palco, al suo pubblico, sotto forma di “gancio” ben assestato. Un percorso artistico giunto ormai a dieci anni di attività che ha nella coerenza uno dei suoi grandi pregi, e che, grazie alla collaborazione dei neonati Teatri di Bari, si è potuto celebrare con una vera e propria maratona teatrale tenutasi tra Teatro Abeliano e Kismet.
In quasi due settimane, infatti, la compagnia ha riportato in scena tutti i suoi lavori in rigoroso ordine cronologico. In realtà ne è mancato uno La beatitudine ma il loro ultimo lavoro è stato già ospitato di recente all’Abeliano, quindi tutto in ordine. Impossibile non rilevare, dopo aver seguito l’intero focus, alcuni aspetti secondari ma altresì importanti: sale sempre gremite (non è cosa scontata a Bari), molti volti giovani (finalmente!) che invadono i teatri, applausi lunghi e scroscianti a fine spettacolo, incoraggiamenti anche durante la messinscena, e commenti di chi sembra aver visto lo spettacolo della propria vita. In definitiva, Lanera e Spagnulo, nella propria città, sembrano essere diventate due rockstar, e questo è quanto meno inconsueto in ambito teatrale. Per comprendere i motivi di questo successo, cerchiamo di ripercorrere brevemente la storia della compagnia attraverso gli spettacoli proposti e di tracciare un quadro d’insieme.
Tutto ha inizio con Mangiami l’anima e poi sputala (2007), opera prima tratta dall’omonimo romanzo di Giovanna Furio. Una donna del sud, incatenata fisicamente e spiritualmente alla sua Fede, vede quest’ultima finalmente materializzarsi nelle vesti e nel corpo di un Cristo moderno, esoterico e dall’accento slavo. L’inizio di una storia d’amore, impossibile e grottesca, tra le passioni carnali di lui e la casta devozione di lei. Sacro e profano s’incontrano e, pur senza alcuna blasfemia, si ribaltano, scoprendo una Puglia sempre in continua lotta tra il desiderio di rinnovarsi e la difficoltà di liberarsi, anche parzialmente, delle proprie tradizioni. Un diamante grezzo che racchiude, allo stato embrionale, la cifra stilistica e drammaturgica di Fibre.
Trae spunto dalla cronaca, invece, 2.(due) (2008). In un periodo storico dominato dalla spettacolarizzazione televisiva degli omicidi accumulati nella nostra penisola e all’estero, la compagnia amalgama la sfera privata con la cronaca, donando allo spettatore/voyeur la chiave di una mente malata. In una scena bianca, con sacche di sangue penzolanti e una vasca da bagno nelle retrovie, una donna ci racconta la propria storia. Il marito l’ha lasciata per un altro uomo e lei l’ha ucciso, decidendo che di lì a poco si sarebbe chiuso il sipario anche per lei. Un testo semplice e feroce che trova compimento principalmente grazie alla fisicità e alle variazioni ritmico/psichiche della sua protagonista, questa volta sola sul palco.
Si cambia registro, e sembra di assistere all’episodio di un Cinico Tv 2.0, nel terzo spettacolo in programma: Furie de Sanghe Emorragia Cerebrale (2010). Una casa/tenda è abitata da una zia che ha occhi e cure solo per il suo capitone (Sara Bevilacqua), da un padre in sovrappeso drogato di tv (Corrado Lagrasta), da un figlio ossessionato dai gratta e vinci (Spagnulo), e dalla sua strafottente ragazza (Lanera), rinchiusa in un sacco della spazzatura e trascinata in casa. Tra rituali quotidiani e ossessioni compulsive i tre padroni di casa finiranno per sottomettere anche l’elemento più insubordinato: si spegne ogni speranza riposta nel presente e si ripiega su un futuro più ottimista. La compagnia scatta delle istantanee di una città, Bari, eretta a simbolo di un Sud bonariamente arcaico ma al contempo drammaticamente attuale.
Dalle forti tinte distopiche è, invece, Have I None (non ne ho) (2011), prima e unica volta in cui la drammaturgia non proviene dalla penna di Spagnulo. Il testo noir fantascientifico, infatti, è preso in prestito da Edward Bond, uno dei maggiori autori britannici contemporanei. In uno spazio angusto, delineato da nastri bianchi, una coppia (Lanera, camuffata da marito e Marialuisa Longo) vede stravolgere la propria esistenza dall’arrivo del rinnegato fratello (Spagnulo) di lei. In un clima claustrofobico, in cui il legame affettivo e i ricordi sono negati, alcune situazioni surreali porteranno al suicidio della donna. Non c’è speranza in questo testo, la liberazione arriva solo a tragedia consumata, quando i personaggi sono scomparsi e gli attori si liberano della scena e degli abiti sulle note di una Rock’n’Roll Suicide che, ascoltata di questi tempi, ha tutto un effetto a sé stante.
Da una scena angusta ci ritroviamo in quella spaziosa, bianca ed eterea di Duramadre (2011). Illuminati dalle splendide luci di Vincent Longuemare, tre creature (Mino Decataldo, Danilo Giuva, Simone Scibilia) prendono vita, scoprono il gioco, l’alleanza e la solitudine. A sovrastarli, dall’alto della sua postazione dotata di una macchina da cucire, c’è la Madre matrona (Lanera). Impegnata a creare abiti per il loro funerale, la madre tenta di nascondere ai nuovi arrivati una sorella (Longo) alla quale il gioco della vita è risultato già chiaro. Un’opera complessa, una favola dalle tinte nere in cui l’universo matriarcale cesserà, ma da quel momento gli orfani si troveranno ad affrontare un mondo sconosciuto senza avere i mezzi per farlo.
Quattro quadri, sorvegliati da un boia-burattinaio (Decataldo) compongono Lo Splendore dei Supplizi (2013), l’ultimo spettacolo in rassegna. Quattro scene che vedono al loro interno figure attuali: La coppia di due giovani incatenati dalla sicurezza di una relazione che odiano; Il giocatore, senza né arte né parte che si è giocato i soldi della pensione materna alle macchinette; La badante di un vecchio disabile fermo sostenitore della razza italiana a discapito degli stracomunitari; e Il vegano nonché imprenditore, rapito da due operai disoccupati. Quattro categorie estremamente familiari, vivisezionate e crudelmente condannate da castighi esemplari.
Feroce, violenta, a tratti inquietante, mai stanca di rinnovarsi nonostante l’apparente staticità argomentativa, questa giovane coppia ben collaudata ha sempre cercato di mostrare, senza averne mai alcun timore, scorci della nostra società tramite la creazione di figure surreali, considerate morte e sepolte dalla modernità ma, in realtà, rimaste sempre tragicamente in vita. Paradosso messo in scena utilizzando una lingua il dialetto o un italiano dal forte accento barese scomoda, sporca, resa meno ostica grazie alla ritmicità testuale e a una gestualità marcata. Parole nude e crude, sputate sul palco e divenute nel corso di questo decennio autentico marchio di fabbrica di una coppia profondamente legata alla propria terra.
Una baresità, la loro, portata con ostinazione, che a volte tuttavia si scontra con l’impianto narrativo di base, creando un cortocircuito che porta a risultati meno efficaci del solito. In Duramadre, ad esempio, i due registri tendono infatti a calpestarsi i piedi a vicenda senza mai raggiungere un’effettiva compattezza, dando luogo a un’inevitabile perdita di ritmo.
La drammaturgia di Spagnulo, ad ogni modo, si conferma sempre in costante dialogo con la regia di Lanera. I due si cercano, si scrutano, si completano; motivo per cui i momenti artisticamente più alti si rilevano proprio quando i due sono in scena insieme. Non è un caso che in 2.(due) e nell’episodio del Giocatore nello Splendore si perda un po’ di mordente, recuperato parzialmente da performance attoriali sopra le righe. L’elemento comico, d’altronde, è quasi sempre una costante delle loro messinscene: arma a doppio taglio che in alcuni casi stenta a equilibrarsi con il tragico, smarrendo il quadro generale. In tal senso nell’ultima produzione (La Beatitudine) è evidente il raggiungimento di un pregiato bilanciamento dei registri che infonde all’intera opera grande fluidità.
Un teatro fondato sulla coppia, dunque, che col tempo ha visto ampliare il proprio cast in spettacoli più elaborati e complessi, nei quali al contempo riemergono costantemente le dramatis personae degli esordi, l’amore per il grottesco, l’uso consapevole dello spazio e l’importanza della musica, sempre presente e funzionale allo spettacolo.
Ripartire ogni volta dalla radice, quindi, per maturare e crescere artisticamente. Auguriamo a Fibre Parallele che questo avvenga ancora a lungo, senza sentirsi mai sazi, anche dopo felici maratone di questo genere.
Ascolto consigliato
Teatro Abeliano e Teatro Kismet, Bari – Dal 12 al 24 gennaio 2016